/ Archivio notizie e iniziative | BlogAut | 9MAGGIO | Notizia

Da Garibaldi a Cettolaqualunque.

Elementi per uno sciocchezzaio.

decresce la grandezza del testo Resetta la grandezza del testo Incrementa la grandezza del testo

Marcello Faletra 

L’oggetto perduto. I festeggiamenti per l’unità d’Italia sono finiti. Ma circola ancora, seppure in modo evanescente, il fragore dei festeggiamenti. Per un giorno gli entusiasmi si sono sommati alle defezioni. Uno spettacolo di massa che ha visto gran parte del paese ruotare come satellizzato intorno ad un oggetto perduto: il fantasma dell’unità. E’ lo stesso oggetto perduto di cui parlava Lacan, attorno a cui si liberano pulsioni di odio o amore, di rifiuto o di identificazione. In quanto correlato dell’amore gli amanti dell’unità hanno tentato un lavoro di transustanziazione dell’immaginario nel reale. In mancanza di prove reali di questa unità si è fatto ricorso ad una ritualità celebrativa con i segni immaginari dell’Unità: tricolore, inno, performance patriottiche, visite ai luoghi sacri della “patria”, il Nabucco di Verdi in tutte le salse (pop, folk, alla Toscanini o alla Muti), dichiarazioni di principio sull'unità, sfoggio di valori di coesione e di compattezza nazionale, eccetera, eccetera. Mentre come correlato dell’odio i rappresentanti del “popolo padano” si sono fatti notare per l’ostentazione dell’assenza. Un odio contro il significante “unità” sbandierato con orgoglio, schietto, senza veli, cioè osceno come i primi piani del culo delle veline inquadrate dalla televisione. D’altra parte è del tutto evidente che questa “unità” manchi nella realtà da tutte le parti. Se cerchiamo di afferrarla sfugge non appena ci caliamo nel reale e vi scorgiamo l’impostura, la truffa, l’agonia della politica nei talk show, un parlamento ostaggio dei partiti che non fanno scegliere i candidati, diseguaglianze sociali, saccheggio del territorio, attacchi all’indipendenza della magistratura, descolarizzazione della società, xenofobia, ecc.. Di fatto l’oggetto dell’unità è un oggetto immaginario. Ironia del destino: l’Unità che entra nelle commemorazioni è quella che esce dalla storia, dai rapporti sociali viventi. L’unità reale (se mai è esistita) ripiega sul referente (l’idealizzazione dell’unità).

Per usare il linguaggio di Foucault “la schiuma della storia”2, cioè il tratto normativo di certe pratiche discorsive che tendono a legittimare una versione dei fatti piuttosto che altre, è funzionale all’eliminazione dei nessi storici, a rendere secondarie le molteplicità o, in altre parole, a neutralizzare il reale che spesso si nasconde nel dettaglio. Spesso nella lettura del processo che portò all’unità d’Italia ci troviamo di fronte a enunciazioni da catalogo dove spiccano gesta, immagini, aneddoti, raggruppati secondo una visione organicista o verosimile della storia. I fatti sono catalogati in funzione di un referente ideale: la “libertà”, la “patria”, “l’unità”, ecc. In altre parole: non siamo più nella storia, ma nella rappresentazione della storia. Il referente ideale sostituisce la realtà oggettiva. Ed è in questa deviazione che la narrazione storica si mette la maschera del verosimile. Che cos’è il verosimile? E’ quel procedimento narrativo che trasforma il visibile (l’immagine che viene trasmessa di un fatto o di una storia) in modello o in norma,. e l’invisibile (il reale concreto) in deviazioni, stabilendo immagini della storia che hanno tutta l’evidenza della verità (produzione di senso), con le parole di Julia Kristeva è “il discorso che somiglia al reale”3. E’ ciò che è stato depositato da una visione della storia come rappresentazione, la cui effige, nel nostro caso, è racchiusa nel lemma “Unità”.

La ricostruzione di un insieme di fatti è mediata da forme descrittive (il racconto storico) che stabiliscono la comprensione e la veridicità del sintagma “unità d’Italia”. Fino a trasformare questi referenti in ovvietà.

E’ ovvio per esempio dire che l’unità d’Italia era un ideale sentito da tutti gli “italiani”, e altre cose simili. Insomma un ideale si proietta retrospettivamente nella pluralità del reale, generando quella transustanziazione di cui parlava Marx a proposito della merce il cui enigma si esprime attraverso un cartellino che ne indica il prezzo, occultando il lavoro reale. In questa prospettiva il racconto della storia è una finzione4. Bachelard ha dimostrato che la conoscenza in tutte le sue forme non può fare a meno dell’immaginazione, cosi come la registrazione di un dato non può escludere una proiezione su di esso5. La storia non è mai pura come un cristallo. Si tratta allora di chiedersi di fronte a quale storia ci troviamo quando si fanno ricostruzioni che vedono il sud stare meglio sotto Savoia o sotto i Borbone? Per i primi vi è un esercito di storici pronto a dimostrarlo carte alla mano. Per i secondi vale lo stesso argomento. In entrambi i casi il nesso storico tra i singoli avvenimenti e le spinte delle condizioni economiche e politiche generali viene mancato nella misura in cui l’ideale (l’abbaglio del visibile) si antepone al documento storico. Il conflitto città/campagna può dare un esempio di questo rapporto che vede da un lato una società basata sull’imprenditorialità, dall’altra una società basata sul latifondo. Due fattori che regolano un processo e che si esprime mediante immagini, racconti, miti, ecc., che si sovrappongono alla lettura dei fatti.

Non deve meravigliare che anche una storiografia di sinistra vi si sia impigliata. Per una storiografia basata sul verosimile è preferibile il luogo comune all’archivio, oppure essere conformi all’opinione surrogandola con ricostruzioni ad hoc. E’ l’illusione realista di ascendenza aristotelica (la mitica “evidenza dei fatti” in quanto tali), che spesso scade nel ridicolo. Perché lo sforzo di adeguare la narrazione storica alla presunta “tradizione” dei “padri”, cioè al verosimile, surrogandola di immagini che hanno l’evidenza della prova, si rovescia spesso in melodramma, e finisce per  suffragare presso il cosiddetto “popolo” la sete di miti e di gesta degli eroi, senza alcuna presa di coscienza della Storia come teatro dell’oppressione. Da questo punto di vista come interpretare l’assegno che il Generale Landi si prese da Garibaldi (14.000 ducati che poi si rivelarono essere solo 14 ducati per via di un volontario difetto di trascrizione fatto da Garibaldi) per non affrontarlo seriamente con il suo ben nutrito esercito nella battaglia di Calatafimi? Ovunque si legge che Garibaldi fece un’eroica battaglia degna di un personaggio dell’Iliade. Episodi del genere costellano il processo dell’unità d’Italia. Si tratta a questo punto di capire quale peso dare ad un particolare (decisivo) di questo genere, oppure neutralizzarlo, tacendolo. In questo caso la finzione storica è prossima alla teatralizzazione dei fatti e, conseguentemente, trasforma gli avvenimenti in immagini. La finzione in questo caso diviene un esercizio di organizzazione dell’oblio.

Infatti, già  Gramsci e prima di lui Francesco Saverio Nitti avevano osservato quanto questa “unità d’Italia” sia stata di fatto un’occupazione per la riuscita della quale fu istituita anche una guardia nazionale anticontadina che affiancava l’esercito sabaudo che “soffocò col terrore e con la fucilazione in massa” coloro che furono dipinti da una letteratura tendenziosa “briganti”. “Una vera guerra civile” come la definì Nicola Zitara – tra i maggiori studiosi dell'Italia post-unitaria - con più di 20.000 morti. Un’unità di fronte alla quale Luigi Settembrini (primo ispettore generale dell’istruzione pubblica dopo la conquista sabauda) si espresse con parole eloquenti: “il filo di ferro che ha cucito l’Italia e la mantiene unita”. Dunque un’unità forzata. Un’unità partorita col gioco della forza, estorta col sangue e con gli ideali di “libertà” e di “unità”.

Di fatto vennero istituite leggi speciali che consentivano ai generali Cialdini, Pallavicini, La Marmora, Covone “di tenere tribunali militari, fucilare la gente sul posto, arrestare e senza processo, tenere i fermati per anni in prigione e tagliare in alcuni casi nel pieno dell’estate, le forniture d’acqua a interi paesi”.

Anche le nuove leggi fiscali furono un’altra estorsione selvaggia (o “primaria” col linguaggio di Marx) del capitale: tassa sul macinato, tassa di successione, tassa di famiglia, imposta immobiliare, tassa provinciale e comunale. Non restava che andare via e cercare un’altra “patria”. L’unità nasce col più grande esodo di massa della storia d’Italia. Nasce già da una violenta separazione della sua popolazione. Un’unità spezzata. Lo sfruttamento dei contadini passò cosi dai Borbone ai Savoia. Dalla borghesia terriera alla borghesia imprenditoriale i cui interessi furono tradotti in ideali liberali e unitari, di cui il portavoce filosofico alcuni decenni dopo fu Benedetto Croce con la sua visione del risorgimento, secondo cui l’unità è il frutto di ideali di “libertà”, seguendo in tal modo un principio astratto dell’idea di libertà sganciato dalle reali condizioni di progressivo impoverimento delle classi sociali nel sud.  L’unità in questa ottica è come dice Adorno della metafisica  “il ventre divenuto spirito”. La borghesia nascente ha fame di mercato; assalire la preda – il sud – può risultare pericoloso, per questo necessita di forze supplementari: la ferocia bestiale della guardia nazionale che scatena massacri esemplari. Le teste mozzate dei “briganti” esposte nelle piazze furono uno dei più significativi mezzi di dissuasione popolare. Non si tratta di dire che prima si stava meglio, ma che le cose sono peggiorate.  
 

Il rovescio dell’eroe.  “Questa ermafrodita generazione di Italiani, questi miei paesani ch’io ho cercato di nobilitarli tante volte e che si poco lo meritavano…Io sono sdegnato veramente di appartenere ad una famiglia che conta tanti codardi”, così scrive disgustato Garibaldi alla moglie durante l’assedio di Roma nel 1849. Si lamentava del fatto che a fronteggiare i francesi vi erano un cospicuo gruppo di mercenari impreparati e con poca grinta. Per convincerli a combattere il 3 giugno del 1849 ricorse, in estremo, ad argomenti sessuali: “Voi siete i soldati che ieri con orgoglio si lasciarono baciare dalle donne romane, in compenso d’eroiche gesta! Che direbbero oggi le stesse, se voi non foste in caso di riprendere il casino dei Quattro Venti?”  Ma non funzionò. Infine ricorse all’ultimo argomento che gli rimaneva: l’orgoglio maschile; e cosi rivolgendosi ai suoi commilitoni disse: “Ognun di noi si presenterà domani, colla fronte alta, alle bellissime romane che con un cenno d’ammirazione e d’amore ci diranno: ‘Per voi, valorosi, noi non fummo contaminate dal barbaro [cioè i francesi]”. Tuttavia, nonostante l’appello al richiamo sessuale, Garibaldi fu sconfitto lo stesso. Una figuraccia per un uomo la cui immagine di eroe lo sovrastava da ogni parte. Questo dettaglio (il reale), apparentemente insignificante, capovolge d’un colpo l’immagine dell’eroe invincibile (il realismo che si è sostituito al reale) in un uomo qualunque, ostaggio della sua stessa immagine virile e la cui strategia militare di fronte allo spettro del fallimento lo costringe a ricorrere all'impulso sessuale. La contingenza del reale è stata ripulita nei manuali di storia con la semplice espressione “Garibalfi fu sconfitto”.

Come accade nei melodrammi che si affermano contestualmente alle imprese garibaldine, questo episodio di guerra assume una coloritura comica, una sfumatura di leggerezza che rovescia il pathos tragico della guerra in farsa. D’altra parte non bisogna dimenticare che questo “eroe” all’età di 53 anni (1860) convinse una minorenne (Giuseppina Raimondi di 17 anni) a sposarlo dopo averla “copulata” (il termine è di Garibaldi) ripetutamente. (Un altro dettaglio scabroso di cui la storiografia ufficiale preferisce svilirne il significato).

Un matrimonio quasi estorto con la forza della sua autorità, preceduto da una lettera nella quale gli confessa che ha  avuto una figlia con la sua governante a Caprera. E quando la giovane incoraggiata da quella confessione gli confessa a sua volta di essere incinta di un altro, il nostro eroe non esita a maltrattarla e a ripudiarla qualche ora dopo averla sposata.

Ciò che valeva per lui non era possibile per la ragazza. E non è da trascurare il modo in cui descrive la donna (la sua governante a Caprera) che le ha dato una figlia (Anita) in una lettera alla malcapitata Raimondi prima del matrimonio: “Giuseppina adorabile!...Io ho nell’isola [Caprera] una donna plebea, e da quella donna ho una bambina!”. Già una “plebea” con cui soddisfare i propri impulsi sessuali. Sappiamo che la scrittura della storia è tessuta di esistenze, di occorrenze, di esseri, di entità con tutti i loro predicati. Ma di tutte queste cose resta solo l’immagine glorificata in funzione del referente ideale.

Quest’uomo piccolo di statura dai capelli lunghi come un Cristo che gli coprivano un orecchio mozzato da un morso che una sventurata ragazza gli aveva dato per sottrarsi ad una violenza sessuale, adottò l’icona dei gauchos argentini – capelli e barba lunghi, il poncho e i gesti ardimentosi da spaccone. Inoltre una volta in Sudamerica si alleò con il latifondista e allevatore Bento Conçalves che si era ribellato al Brasile per proclamare la repubblica di Rio Grande. La strage di Imaurì (Riogrande in Brasile) e il saccheggio di Gualeguaychù (Uruguay) dove i contadini con le loro famiglie che non passarono dalla sua parte vennero trucidati e depredati dai mercenari capeggiati da Garibaldi, si inscrive in questa feroce predazione delle terre che vede il nostro “eroe” impegnato ad adempiere fino in fondo il proprio mestiere di corsaro. Questo atteggiamento verso chi gli si oppone lo ripeterà in Sicilia e soprattutto a Bronte. Ascoltiamo Lucy Riall: “La cattiva reputazione di Garibaldi a Buenos Aires, dove lo si considerava un pericoloso avventuriero, non era del tutto ingiustificata”10. Di questi episodi, pressocché ignorati o minimizzati come fa ad esempio Giorgio Candeloro nella sua monumentale “Storia dell’Italia moderna”11, non resta altro nel racconto storiografico che la sua transustanziazione ideale: “eroe dei due mondi”. Ora il mito, per la sua natura esemplare non conosce la negazione, poiché fonda il suo statuto d’esistenza su una procedura assertiva: è necessario nella misura in cui “ha per noi l’autorità di un fatto naturale”12. La sua esistenza si pone come trasfigurazione idealizzata di una realtà vissuta. Bisogna dunque accettarlo cosi com’è poiché il modellamento mitologico è, come osserva Kerényi, “immaginifico”13. Esso - come direbbe Castoriadis - contribuisce all’istituzione immaginaria della società. E uno stato che si appresta a nascere non può essere orfano di miti.

Da questo punto di vista lo statuto assertivo del mito che la storiografia ufficiale o normativa ci trasmette  ha molte analogie con gli enunciati degli schizofrenici in quanto incapaci di far subire al discorso una trasformazione negativa. Roland Barthes (sulla scia di Lucy Irigaray) ha messo in evidenza questo tratto  schizofrenico nella procedura discorsiva tipica della storiografia positivista14 di cui quella di Giorgio Candeloro ne è un esempio monumentale. L’enunciato assertivo – “Garibaldi è stato un eroe” – di fatto rifugge il reale (il dettaglio che lo inchioda al concreto) che consentirebbe la sua trasformazione da mito a uomo comune, soggetto a passioni che lo sovrastano da ogni parte come l’impulso allo stupro. Non esistono eroi prima di un racconto che li elevi a mito. E’ quindi sempre dalle forme del racconto storiografico che occorre partire per decostruire la massiccia crosta di immagini e luoghi comuni che si frappongono fra il presente e il passato.

Bisogna dirlo: l’eroe universalmente riconosciuto della nostra “unità” è, che lo si desideri o no, un mercenario e un aspirante dittatore (in Sicilia si autoproclamerà “Dittatore”). “Garibaldi sognava una specie di dittatura, senza parlamento e con poca libertà”, osserva lo storico Luigi Salvatorelli. In una lettera di Bakunin a Herzen si legge: “Ho paura che Garibaldi si lasci sedurre per la decima volta e diventi, nelle mani di chi voi sapete [leggi Cavour], uno strumento per gabbare i popoli”. La sua superficialità e la sua confusione di idee erano ben noti negli ambienti rivoluzionari europei: Garibaldi infatti abbraccia con disinvoltura tutte le dottrine che mirano a un rovesciamento della vita politica in funzione degli interessi di forti lobby massoniche, latifondiste e borghesi.

Infatti una volta sbarcato in Sicilia che fa? Da un lato proclama l’editto di Salemi in cui promette le terre ai contadini oppressi dalle angherie dei latifondisti, ma poco dopo si allea con gabelloti, aristocratici e con gli stessi latifondisti, perseguendo fino al massacro i contadini che si erano illusi di poter riscattare le proprie terre come è successo a Bronte. Da buon massone in fondo una volta in Sicilia ha difeso gli interessi di potenti famiglie inglesi come gli Ingham, i Withaker, i Nelson, i Woodhouse.

Nei libri spesso gli eroi muoiono di una morte violenta e valorosa. Sono eroi proprio perché non temono la morte. La morte di Ettore per la spada di Achille, ad esempio, comunica un insegnamento d’ordine morale: difende l’onore della città pur sapendo che andrà incontro alla morte. Mentre questo furbacchione la fa sempre franca.

E non va trascurato l’episodio del 4 agosto del '49 dove la sua amata Anita, moribonda e incinta viene abbandonata dal suo “eroe” presso la fattoria Guiccioli (Ravenna) perché inseguito dagli austriaci. Anita verrà trovata in seguito sepolta poco distante dalla fattoria con evidenti segni di strangolamento, come dichiarerà il medico legale. Chi sia stato a strangolarla resta un enigma.

Quale valore collettivo, formativo per un’immagine dell’unità d’Italia bisogna trarre da questo eroe se non quello di un “filibustiere” come lo apostrofò lo stesso futuro re d’Italia Vittorio Emanuele II°. Un “eroe” sempre al soldo di latifondosti in sudamerica e di massoni in Europa, cioè un corsaro e un predone. Senza dubbio un modello molto attuale, in linea con le aspirazione della società neoliberista che produce cinismo, affari, mercenari d’ogni specie, “filibustieri”, appunto, che la sanno lunga sulle complicità, sulle lobby affaristiche, sugli intrallazzi.  
 

La prostituzione del significante. In questa immagine di eroe come non riconoscere una ben nutrita truppa di star della politica d’oggi che la fanno quasi sempre franca a dispetto dei valori di “unità”, “patria” ed altre sciocchezze propagandistiche diffuse dalla destra ma soprattutto dalla “sinistra”, una classe politica che si è fatta portavoce degli interessi ieri della borghesia industriale, oggi delle lobby finanziarie? Parole astratte, pure enunciazioni verbali dietro cui si cela una reale spaccatura del paese: precari e privilegiati; truffatori di stato e lavoratori mortificati dai bassi redditi; disoccupati e sfruttatori; evasori fiscali garantiti da opportune leggi e masse obbedienti; leghisti xenofobi e meridionali.

Parole che celano subdolamente gli interessi in gioco nello scacchiere nazionale ed internazionale. Queste parole sono come una X, un punto vuoto da riempire, puri significanti da giocare strumentalmente, cioè ideologicamente. A questa profilassi del significante immaginario, a questo vuoto di senso, ci siamo abituati già da tempo con la prassi alimentare: caffé decaffeinato, birra analcolica, ecc., che sul versante politico-sociale si trasforma in “unità” senza unità. Lo scenario del significante come casella vuota di senso è anche quello di parole astratte come quella della parola “libertà”, la più abusata e strumentalizzata degli ultimi anni, parola contesa da tutti i partiti politici come prova della loro presunta vocazione “democratica”, un autentico stupro per il suo potenziale uso propagandistico. La parola libertà non è sopravvissuta al suo effetto perverso: la liberalizzazione. La mercificazione della “libertà” produce l’effetto dispotico che si riverbera nello sciocchezzaio mediatico che coincide con quello politico. Infatti: siamo in un “paese libero” dove non si possono scegliere i candidati alle elezioni! Questa è la liberalizzazione della parola Libertà. Un puro segno svuotato di ogni valore collettivo, e infarcito del capriccio individuale come vuole il vangelo neoliberista: “tu utilizzerai l’altro come un mezzo per raggiungere i tuoi fini”17. I voti di scambio lo testimoniano ampiamente.

Mentre sul lato del lavoro i contratti sindacali con le aziende vengono imposti dai manager col ricatto della delocalizzazione delle imprese. Ecco il volto reale, cioè dei rapporti di classe, della parola “libertà”: è il libero commercio e la trasformazione della vita reale di una nazione in merce assoluta. Il tutto condito con l’illusione di un popolo “unito”.

Il romanticismo melodrammatico di queste parole assolve una funzione anestetizzante come quello svolto dai santi di fronte all’impotenza: è un balsamo psicologico a scadenza programmata, poiché dura giusto il tempo dello spettacolo.  E’, in altre parole, l’oppio linguistico dei mass-media che si diffrange nell’ascolto pubblico generando quelle emozioni da feuilleton o story papers che servirono nel XIX° secolo a creare un diffuso senso di identificazione popolare nella subalternità ai voleri dei borghesi e oggi ad ammansire le delusioni dello spettacolo pubblico di un paese predato da gruppi d’affari senza scrupoli a cui viene concesso pure il beneficio di leggi protettive.

Canaglie, impolitici di corte, direttori dell’obbedienza televisiva, stupratori delle risorse pubbliche che non lesinano un “massaggio” da puttane mascherate da crocerossine, professionisti dell’evasione fiscale, faccendieri mafiosi, eccetera. La commedia dell’unità in fondo è servita a rifilare la “transustanziazione degli interessi borghesi in ideali liberali e unitari”.

Ieri questo romanticismo era distillato da “canti patriottici, tempestosi melodrammi, romanzi gotici e storie nazionali”, e fu proprio attraverso questi strumenti letterari e drammatici che Garibaldi potè raggiungere un vasto pubblico”, oggi questa funzione è assolta dallo sport e dai reality show.

Quale insegnamento possiamo trarne da un’ideologia dell’unità di tal fatta? Si tratta di chiedersi: a quale esigenza corrisponde la necessità di credere che all’origine dell’unità d’Italia vi siano degli eroi, cosi come per la Rivoluzione Francese corrisponde un pantheon dove spiccano i Robespierre, i Saint-Just, i Danton, ecc. Certo il confronto è offensivo per i Saint-Just che almeno ebbero il coraggio di argomentare che un Re può essere processato e giustiziato, ma un Garibaldi al soldo dei latifondisti e dei massoni e contro i contadini e rifilato come un eroe? E’ troppo!

Ogni storia di popolo o di nazione inizia con miti d’origine popolati da figure di eroi. Greci e romani possono vantare miti ed eroi esemplari che hanno lavorato l’immaginario collettivo fornendo modelli di comportamento e una favolistica che è stata in qualche modo una propedeutica all’identificazione di un gruppo, di un popolo, di una nazione.

Ma gli italiani? Da questo punto di vista occorrerebbe, come suggeriva Gramsci, verificare il significato della parola Italia lungo tutta la sua storia. Gramsci, con le lenti del materialismo storico, ha visto che la storia del termine Italia nella prospettiva risorgimentale acquisisce un nuovo significato legato prevalentemente al “liberalismo che investe la vita economica e la vita religiosa e poi quella politica e che non è tanto un “principio” quanto un’esigenza di produttori”, il cui rappresentante politico fu Cavour il quale preferiva parlare francese e i cui riferimenti culturali erano tutti a Parigi.

Eppure le nostre vie sono popolate a tappeto da questi nomi che hanno estorto la memoria storica instaurandone un’altra con la violenza. D’altra parte che si è trattato di una conquista è confermato dallo stesso Cavour  in  una lettera all’ambasciatore Ruggero Gabaleone conte di Salmour dove si legge: «Come ha potuto solo per un momento uno spirito fine come il tuo, credere che noi vogliamo che il Re di Napoli conceda la Costituzione.? Quello che noi vogliamo e che faremo è impadronirci dei suoi Stati».  
 

Filibustieri: da Garibaldi a Cettolaqualunque. Filibustieri come Garibaldi oggi ve ne sono tanti da costituire un piccolo esercito ben addestrato. A livello della loro eroicizzazione mediatica svolgono la stessa funzione regressiva dei miti e delle religioni.

  In tutte le società in cui gli uomini sono sfruttati, oppressi ed alienati, il criminale, il mercenario, il corsaro – da Garibaldi a Cettolaqualunque - assume la maschera dell’uomo libero, diviene un idealtipo, per usare il linguaggio di Max Weber. Sperperando liberamente il suo bottino (o quello dello stato) può far credere che lo dia anche ai poveri.

Questo accade perché la società classifica convenzionalmente come criminale chiunque le si ribelli. Il destino della parola “libertà” non è indenne da questa perversa distorsione. Oggi sarebbe libero colui che è in grado di stravolgere le regole della convivenza collettiva. Di fare quel che caspita gli pare. Di fatto l’uomo più “libero” di tutti è il criminale che è pure messo nelle condizioni di non dover rispondere delle proprie malefatte (scudo fiscale, ecc.). E a lui va l’onore reverenziale (populistico) di chi infrange il patto sociale.

  In assenza di banditi positivi alla Robin Hood, fasce giovanili, la piccola borghesia e la povera gente non politicizzata e resa ignorante da anni di ebetudine televisiva, li cercano altrove, purché siano coraggiosi e sfacciati, come richiede oggi l’universo dello spettacolo. A costoro il criminale gli restituisce la funzione sociale del mito, l’illusione della salvezza, mentre trattiene per sé l’intero bottino.

  Dal punto di vista dell’immaginario collettivo, l’idealizzazione del criminale trasforma in una sorte di eroe colui che dal nulla riesce a prendere il potere. Infrangendo le leggi può far credere che liberi gli uomini dalla loro insoddisfazione. Una volta il crimine si cercava di commetterlo senza farsi scoprire. Come un incubo la prova incombeva sul criminale. Oggi si fanno leggi per rendere le prove inesistenti. Forse in un futuro non molto lontano il crimine non esiterà più. Allora tutta la società sarà passata dalla sua parte.

  E' per questo che il mito dell'unità genera allo stesso tempo qualcosa di tragico e comico. Abbiamo sempre vissuto dello splendore inutile del mito e della salvezza nell'oblio. Di fronte al mondo sempre più mediatizzato, il mito e l'oblio propagano qualcosa di una socialità mistica dell’uguaglianza. Tutti gli uomini sono uguali di fronte all'illusione dell'unità.

  Cultura alta e cultura popolare si contendono l’attenzione delle masse. La prima è legata al culturale, la seconda al cultuale. Il culturale eleva; il melodramma popolarizza. Il Barbiere di Siviglia di Rossini rovescia il Parsifal di Wagner. L’immagine di Garibaldi rovescia il teologo della rivoluzione contadina in Germania Thomas Munzer o il rivoluzionario francese Sain-Just. Ogni tendenza mitica all’assoluto è comica. Le opere e le gesta eccessivamente serie sono comiche. Non sarebbero tali se non fossero eccessivamente serie. La Commedia che entra nella storia la trasforma in farsa. Il piccolo uomo con l’orecchio mozzato per tentativo di stupro, adulatore dei feroci gauchos, corsaro e massone viene ripulito nell’immagine dell’eroe nazional-popolare.  L’invenzione di eroi di tal fatta anticipa la commedia all’italiana degli anni Sessanta del ‘900.

L’ontologia di Pasqualino Settebellezze di Lina Wertmuller o le tragicomiche figure impersonate da Alberto Sordi sono l’ontologia di massa d’oggi a cui politicamente corrispondono personaggi assolutisti, cioè ridicoli, da operetta come possiamo ben vedere nella politica d’oggi. La farsa fornisce la prova di una salvezza illusoria attraverso l’operetta, in mancanza di una salvezza per grazia o per rivoluzione.

La nostra “unità d’Italia” è anche questo! Cosi come la religione fu definita da un contemporaneo di Garibaldi “l’oppio dei popoli”, non diversamente  gli eroi televisivi d’oggi sono l’extasis delle masse.

Quanto alla “ermafrodita generazione di Italiani” come apostrofò Garibaldi gli italiani di allora che non avevano alcuna voglia di rischiare la vita per una guerra che in quella specifica circostanza era già perdente in partenza (Roma 1849), essa si ripropone oggi, seppure con scenari storici diversi, nell’eroe grottesco di Antonio Albanese Cettolaqualunque, instancabile pornografo che è lo specchio deformante della sessuopolitica d’oggi. D’altra parte Garibaldi, al di là del suo linguaggio retorico da capopopolo, come s'è visto, nell'assedio di Roma fece leva sullo stesso argomento di Cetto: “chiù pilu pi tutti”. La sua immaginazione per superare un ostacolo non andava al di là di quella del branco di mercenari e volontari che guidava. Con le dovute differenze Cettolaqualunque è l’eroe maschile (e mafioso) dell’Italia fondata sulla predazione e sull’arroganza, è l’incarnazione iperreale del superuomo di massa della nostra stasi democratica. E dove c’è stasi c’è metastasi. Ieri con Garibaldi si è trattato di espropriare le ricchezze del sud per convogliarle al nord – il tesoro di Napoli e Palermo servì a coprire i debiti dei Savoia che erano al limite della bancarotta dopo la guerra di Crimea e portò i due terzi della ricchezza monetaria al nord. In Cettolaqualunque sesso, affari e politica partecipano di uno stesso progetto eversivo: espropriare l’Italia predando tutto. La sua ipertrofia linguistica satellizzata intorno ai genitali è la feroce parodia dell’italiano costruito sul modello dei reality show, per il quale solo l’osceno e il disgusto sono degni d’attenzione. In altre parole il culto dei superuomini o degli eroi su cui poggia l’immaginario dell’unità del paese da Garibaldi a Cettolaqualunque è, in mancanza di prove antropologiche e politiche di una presunta “unità nazionale”, l’unica prova a sostegno di questo ritornello propagandistico nato con il culto di Garibaldi e che arriva a noi in forma tragicomica con la eroicizzazione pubblica del mafioso Mangano da parte dei suoi amici oggi al potere. Eroe postmoderno sepolto nel cimitero dei benedettini a San Martino delle Scale dove sulla tomba è scritto: “rifiutò di barattare la sua dignità con la libertà”. In questa espressione è praticata la trasvalutazione di tutti i valori. Non nel senso di Nietzsche, ma nella volontà di potenza dei mafiosi di dare un significato diverso al linguaggio: la parola dignità, in questo scenario, d'un colpo (e per sempre perché incisa su una tomba), diventa sinonimo di omertà.

Feroce ironia della storia: per essere eroi in questo paese occorre essere mercenari, mafiosi e omertosi. In questo epigramma vi è racchiuso come un minerale il valore di scambio del linguaggio. A suffragio di questa constatazione è sufficiente ricordare l'omertà praticata da alte cariche dello stato sulla “trattativa” che fu instaurata con la mafia poco prima delle stragi di Falcone e Borsellino e di cui nessuno di questi filibustieri politici ha voluto renderne conto. Dalla mafia alla politica fino ad esponenti di primo piano delle forze dell’ordine, l'omertà è il valore aggiunto dell'unità d'Italia. Anzi: il simbolo che più d'ogni altro la esprime nella misura in cui tutte le stragi di stato restano ancora coperte dal valore condiviso dell'omertà. Le parole incise sulla tomba di Mangano rivelano una verità sotterranea la cui origine risale alla violenza dell'occupazione del sud spacciata per “unità”.

A meno che non siamo disposti ad accettare come fondamento dell’unità nazionale la carta costituzionale nata dopo la seconda guerra mondiale. Unica traccia di un’esperienza collettiva e trasversale frutto della resistenza che portò alla liberazione dal fascismo e all’estensione del voto anche alle donne. Tratto, quest’ultimo, impensabile per supereroi così diversi e tuttavia cosi vicini di fronte al plusvalore discriminante del sesso e del crimine. Ma è una Carta soffocata dall’impostura dei politici e dall’indifferenza di gran parte degli “italiani”.

( 6 aprile 2011 )



Ci sono 0 commenti sulla notizia