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Italiani, ancora uno sforzo...per essere come Belluscone

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Italiani ancora uno sforzo…per essere come Belluscone

di Marcello Faletra

 

 Il film Belluscone di Franco Maresco è una tragedia. Parla di tutti noi. Parla della miseria umana e culturale del nostro paese. Parla del processo di depravazione in atto in Italia da quasi trent’anni. Dunque parla di un paese apparentemente normale. Gli antieroi o antiattori di questo film, è vero, fanno scompisciare dalle risate, loro malgrado, come in un baraccone che galleggia però in un oceano di tragedia. In questo film normalissime figure d’ogni specie - dal sottoproletariato alla borghesia - tracciano una mappa geneaologica della deriva barbarica che ha investito non solo la Sicilia, ma la nazione intera. Figure normali che ad un tratto assumono le fattezze mostruose del perturbante, che in questo caso è il normale mafioso cresciuto nelle aprospettiche periferie di Palermo, o il normalissimo paramafioso (creatura allevata al culto del capo), o il supernormale colletto bianco (spalleggiatore a distanza della mafia).

Se l’idea di normalità è figlia del luogo comune, quella di  mostruosità, invece, deriva dal sacro e dalla provvidenza divina. Nelle tragedie greche la sacralità che investiva l’uomo era direttamente riferita ad un atto di violenza, come Edipo che uccide il padre e genera figli con la madre. E per ciò verrà separato dalla comunità. Sacrificato alla comunità dei mortali. Colui che è sacro porta una colpa infamante. La mostruosità in questo caso è una visione eccezionale, straordinaria della verità. Talmente eccessiva, precipitata tutta in una volta da essere mostruosa.

E nel caso di Belluscone di quale mostruosità si tratta? Vediamone qualche tratto  brevemente.

 

Il film ha una trama nella trama. Da un lato è uno spaccato antropologico del sottoproletariato palermitano dove prospera la cultura mafiosa, che ha supportato la nascita di Forza Italia e di Berlusconi. E che vede come filo trainante il culto dei neomelodici (una specie di anamorfosi canora della canzone napoletana). Per queste creature, come sentenziò Platone, questa vita cosi com’è non è degna d’essere vissuta se non si sfonda col successo.

E in parte ci riescono: sono adorati da giovanissimi dotati di ultracorpi e faccioni al limite dell’incubo. Alcune scene di questo film potrebbero benissimo stare nel Museo dell’Art Brut di Losanna. Come quelle dei rampolli benestanti che ridono, ridono, ridono di fronte a una domanda sulla data dell’assassinio di Falcone. Nessuna differenza tra le classi sociali, accomunati dalla spensieratezza del bel canto e dal mito.

Dall’altro lato il film vede l’assenza enigmatica del regista stesso Franco Maresco, sostituito dal critico Tatti Sanguinati che a sua volta cerca di scoprire perché; sparizione dovuta per cause incerte (il film suggerisce una difficoltà per una causa tra due giovani neomelodici che ha coinvolto il regista stesso). Maresco, infatti, è presente a tratti. Ed è evidente che ha rischiato molto.

Anche in questo film l’autore pone la lingua come confine esistenziale e come specchio del sociale. Una lingua che registra i traumi da overdose di spettacolo e della sua forzata intrusione nella vita pubblica e privata.  Si tratta di una lingua che parla della merce che c’è in noi e dell’alto potenziale mitopoietico che è in grado di generare. Infatti questa lingua viene divorata nei dialoghi o nelle risposte, dove i verbi si disintegrano nelle storpiature dei tempi, gli aggettivi e i sostantivi si invertono come in una giostra, i periodi sono sincopati, ridotti alla battuta gergale fino all’allucinazione metaforica; o collassa nella esplicita minaccia che Mutolo rivolge a Maresco qualora l’intervista non sia di suo gradimento o prova a fargli trabochetti verbali. Ma a volte questa lingua si esaurisce per mancanza di risposte…Ammutolisce di fronte all’evidenza della contraddizione e dell’ignoranza cui fa scivolare Maresco i suoi interlocutori.

Una lingua che prospera a ridosso di un orgoglioso anagrammatismo - sintomo di un’anti-italia, di un anti-stato.  Una lingua ricca di storpiature espressive che è l’esatto inverso di quella parlata dai rampolli della putrescente Palermo bene intercettata nel finale del film da Maresco, prossima ad alcune scene di alcuni film di Bunuel sui vizi e le virtù della borghesia: surreale per stupidità, ipocrita per doppia moralità, codarda per opportunismo, ignorante e senza memoria storica perché cosi va il mondo, e che nel finale del film - un finale senza fine - si pone sullo stesso piano delle grottesche ma sincere creature che inneggiano a Berlusconi come lo Spirito Santo in terra.

Paradossalmente uno dei vertici di questo film, non è tanto il fatto che si parli di collusioni mafiose o di Berlusconi in quanto tale, il titolo del film d’altra parte è già una dichiarazione d’intenti e i luoghi in cui è stato realizzato parlano chiaro, piuttosto è la provocazione di Maresco nel mostrare che questo sottoproletariato fa domanda di trascendenza come tutti gli uomini. E dove trovano questo ascolto metafisico anche se desublimato? Nel mito. Mito dello spettacolo. Mito del superuomo. Una esagerazione quasi metafisica e che in parte è anche consolatoria. E’ una verità che non si può nascondere, e che fa del film un al di là della mera oggettività tipica dell’inchiesta. Qui il mito sta al sottoproletariato come l’uomo all’animale. Gramsci osservava che la letteratura del feuilletton è una letteratura da sottoscala, nata per sfornare miti a volontà e avere la funzione di distrazione di massa. Adesso questo sottoscala è la televisione intervallata dai concertini di piazza, dove capipopolo trascinano masse intere verso il mito agognato. D’altra parte questi neomelodici mimano e mediano l’eroe (maschile e paramafioso) dell’Italia fondata sulla predazione e sull’arroganza, mediano col superuomo di massa la nostra stasi democratica. E dove c’è stati c’è metastasi.

 

In fondo, ci dice Maresco, che colpa hanno questi sottoproletari d’oggi, giovanissimi, a invocare la salvazione o il miracolo in un mondo che puzza di miseria? La loro realtà ha tutti i tratti del mondo splatter, un universo dell’estremo ridotto all’osso, deprivato di sublime, che entra nelle cucine, negli interni domestici, negli interstizi neuronali, fino a prendere figura di immagine, di modello, di fede assoluta.

La deriva non è soltanto quella provocata dalla brutalità mafiosa. Ma anche quella della costruzione di miti che vengono opportunamente posti alla stregua di divinità, che negli strati poveri della popolazione possono anche essere scambiati con Dio o i santi. E nel film è evidente quanto il mito di Berlusconi sia il veicolo della menzogna.

Ciò che Maresco ci presenta con questo film non è quindi una storia nichilista. Ma l’incapacità di essere nichilisti a sufficienza per negare questo mondo cosi com’è.

Un mondo popolato da miseria e da miserabili e che non è azzardato paragonarlo al mondo scrutato da Pasolini quando vedeva nel consumismo una nuova forma di totalitarismo e dunque un nuovo fascismo.

Per altri aspetti questo film potrebbe essere visto come una versione aggiornata di Freaks di Tod Browning del 1932. Un campionario di esseri grotteschi che per vivere espongono le loro anatomie postumane, che nel caso di Maresco sono fatte di tracce pattumate della televisione e della moda che deformano l’immaginario e l’immagine del mondo. Una olografia del trash quotidiano che nutre la moltitudine giovanile dei quartieri popolari e non.

 

Il finale di questo film mostra un dettaglio significativo. Un dettaglio apparentemente insignificante, poiché è posto a lato dei titoli di coda, ma che rivela, nella sua brevità, una chiave di lettura o uno spaccato dell’antropologia palermitana contemporanea, che in fondo è anche quella nazionale. Dopo quasi due ore di confessioni tra l’alter ego di Maresco (Tatti Sanguineti) e il procuratore di spettacoli popolari (Ciccio Mira), inframmezzati da confessioni parziali di Dell’Utri e del pentito Mutolo, a cui si aggiunge la drammaturgia dell’inno a Berlusconi che vede protagonisti due giovani cantanti, vengono poste a benestanti frequentatori di un locale domande analoghe a quelle poste ai neomelodici, e si scopre come un’apocalisse che non sono soltanto i quartieri popolari come Brancaccio, ad essere attori della deriva populista e paramafiosa del berlusconismo, ma sono anche i ben nutriti rampolli della Palermo bene che sfoggiano con orgoglio la loro indifferenza ai problemi del mondo fino al grottesco.

Infatti, per queste creature a bassa risoluzione intellettiva, con tanto di metalli fluorescenti addosso, corpi griffati, dentiere perfette e sorrisi da ebeti, che importa ricordare una data che storicamente ha segnato uno dei vertici della brutalità mafiosa con l’assassinio di un loro concittadino o di un magistrato? (Di fronte alla domanda che cosa diceva loro la data del 23 maggio - data dell’assassinio di Falcone - il vuoto cerebrale di questi rampolli rasenta la demenza).

Questo è uno dei punti più tragici del film.

Per altri aspetti il film di Maresco, più di tante argomentazioni giornalistiche e sociologiche, ci mette di fronte al nocciolo del problema del populismo e delle derive mafiose che negli ultimi vent’anni hanno preso in ostaggio non soltanto la Sicilia, come è evidente nel film, ma la nazione intera. Nel film la Sicilia non è più una “metafora” nazionale come diceva Sciascia, cogliendo nel segno le metastasi del suo tempo ma,  oggi, è l’artiglieria pesante che è stata utilizzata per affondare il paese nella speculazione, nella miseria, attraverso l’impostura dello spettacolo di massa. E non deve meravigliare se l’esperimento dei neomelodici palermitani che tra altre circostanze culturali hanno catalizzato e catechizzato all’anti-stato e alla pro-mafia i quartieri popolari della città, è alla stregua di quello messo in atto da Berlusconi con la nascita delle televisioni private, il cui ruolo nella depoliticizzazione e nello stravolgimento civile e democratico del paese, oggi, è sotto gli occhi di tutti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Italiani ancora uno sforzo…per essere come Belluscone

di Marcello Faletra

 

 Il film Belluscone di Franco Maresco è una tragedia. Parla di tutti noi. Parla della miseria umana e culturale del nostro paese. Parla del processo di depravazione in atto in Italia da quasi trent’anni. Dunque parla di un paese apparentemente normale. Gli antieroi o antiattori di questo film, è vero, fanno scompisciare dalle risate, loro malgrado, come in un baraccone che galleggia però in un oceano di tragedia. In questo film normalissime figure d’ogni specie - dal sottoproletariato alla borghesia - tracciano una mappa geneaologica della deriva barbarica che ha investito non solo la Sicilia, ma la nazione intera. Figure normali che ad un tratto assumono le fattezze mostruose del perturbante, che in questo caso è il normale mafioso cresciuto nelle aprospettiche periferie di Palermo, o il normalissimo paramafioso (creatura allevata al culto del capo), o il supernormale colletto bianco (spalleggiatore a distanza della mafia).

Se l’idea di normalità è figlia del luogo comune, quella di  mostruosità, invece, deriva dal sacro e dalla provvidenza divina. Nelle tragedie greche la sacralità che investiva l’uomo era direttamente riferita ad un atto di violenza, come Edipo che uccide il padre e genera figli con la madre. E per ciò verrà separato dalla comunità. Sacrificato alla comunità dei mortali. Colui che è sacro porta una colpa infamante. La mostruosità in questo caso è una visione eccezionale, straordinaria della verità. Talmente eccessiva, precipitata tutta in una volta da essere mostruosa.

E nel caso di Belluscone di quale mostruosità si tratta? Vediamone qualche tratto  brevemente.

 

Il film ha una trama nella trama. Da un lato è uno spaccato antropologico del sottoproletariato palermitano dove prospera la cultura mafiosa, che ha supportato la nascita di Forza Italia e di Berlusconi. E che vede come filo trainante il culto dei neomelodici (una specie di anamorfosi canora della canzone napoletana). Per queste creature, come sentenziò Platone, questa vita cosi com’è non è degna d’essere vissuta se non si sfonda col successo.

E in parte ci riescono: sono adorati da giovanissimi dotati di ultracorpi e faccioni al limite dell’incubo. Alcune scene di questo film potrebbero benissimo stare nel Museo dell’Art Brut di Losanna. Come quelle dei rampolli benestanti che ridono, ridono, ridono di fronte a una domanda sulla data dell’assassinio di Falcone. Nessuna differenza tra le classi sociali, accomunati dalla spensieratezza del bel canto e dal mito.

Dall’altro lato il film vede l’assenza enigmatica del regista stesso Franco Maresco, sostituito dal critico Tatti Sanguinati che a sua volta cerca di scoprire perché; sparizione dovuta per cause incerte (il film suggerisce una difficoltà per una causa tra due giovani neomelodici che ha coinvolto il regista stesso). Maresco, infatti, è presente a tratti. Ed è evidente che ha rischiato molto.

Anche in questo film l’autore pone la lingua come confine esistenziale e come specchio del sociale. Una lingua che registra i traumi da overdose di spettacolo e della sua forzata intrusione nella vita pubblica e privata.  Si tratta di una lingua che parla della merce che c’è in noi e dell’alto potenziale mitopoietico che è in grado di generare. Infatti questa lingua viene divorata nei dialoghi o nelle risposte, dove i verbi si disintegrano nelle storpiature dei tempi, gli aggettivi e i sostantivi si invertono come in una giostra, i periodi sono sincopati, ridotti alla battuta gergale fino all’allucinazione metaforica; o collassa nella esplicita minaccia che Mutolo rivolge a Maresco qualora l’intervista non sia di suo gradimento o prova a fargli trabochetti verbali. Ma a volte questa lingua si esaurisce per mancanza di risposte…Ammutolisce di fronte all’evidenza della contraddizione e dell’ignoranza cui fa scivolare Maresco i suoi interlocutori.

Una lingua che prospera a ridosso di un orgoglioso anagrammatismo - sintomo di un’anti-italia, di un anti-stato.  Una lingua ricca di storpiature espressive che è l’esatto inverso di quella parlata dai rampolli della putrescente Palermo bene intercettata nel finale del film da Maresco, prossima ad alcune scene di alcuni film di Bunuel sui vizi e le virtù della borghesia: surreale per stupidità, ipocrita per doppia moralità, codarda per opportunismo, ignorante e senza memoria storica perché cosi va il mondo, e che nel finale del film - un finale senza fine - si pone sullo stesso piano delle grottesche ma sincere creature che inneggiano a Berlusconi come lo Spirito Santo in terra.

Paradossalmente uno dei vertici di questo film, non è tanto il fatto che si parli di collusioni mafiose o di Berlusconi in quanto tale, il titolo del film d’altra parte è già una dichiarazione d’intenti e i luoghi in cui è stato realizzato parlano chiaro, piuttosto è la provocazione di Maresco nel mostrare che questo sottoproletariato fa domanda di trascendenza come tutti gli uomini. E dove trovano questo ascolto metafisico anche se desublimato? Nel mito. Mito dello spettacolo. Mito del superuomo. Una esagerazione quasi metafisica e che in parte è anche consolatoria. E’ una verità che non si può nascondere, e che fa del film un al di là della mera oggettività tipica dell’inchiesta. Qui il mito sta al sottoproletariato come l’uomo all’animale. Gramsci osservava che la letteratura del feuilletton è una letteratura da sottoscala, nata per sfornare miti a volontà e avere la funzione di distrazione di massa. Adesso questo sottoscala è la televisione intervallata dai concertini di piazza, dove capipopolo trascinano masse intere verso il mito agognato. D’altra parte questi neomelodici mimano e mediano l’eroe (maschile e paramafioso) dell’Italia fondata sulla predazione e sull’arroganza, mediano col superuomo di massa la nostra stasi democratica. E dove c’è stati c’è metastasi.

 

In fondo, ci dice Maresco, che colpa hanno questi sottoproletari d’oggi, giovanissimi, a invocare la salvazione o il miracolo in un mondo che puzza di miseria? La loro realtà ha tutti i tratti del mondo splatter, un universo dell’estremo ridotto all’osso, deprivato di sublime, che entra nelle cucine, negli interni domestici, negli interstizi neuronali, fino a prendere figura di immagine, di modello, di fede assoluta.

La deriva non è soltanto quella provocata dalla brutalità mafiosa. Ma anche quella della costruzione di miti che vengono opportunamente posti alla stregua di divinità, che negli strati poveri della popolazione possono anche essere scambiati con Dio o i santi. E nel film è evidente quanto il mito di Berlusconi sia il veicolo della menzogna.

Ciò che Maresco ci presenta con questo film non è quindi una storia nichilista. Ma l’incapacità di essere nichilisti a sufficienza per negare questo mondo cosi com’è.

Un mondo popolato da miseria e da miserabili e che non è azzardato paragonarlo al mondo scrutato da Pasolini quando vedeva nel consumismo una nuova forma di totalitarismo e dunque un nuovo fascismo.

Per altri aspetti questo film potrebbe essere visto come una versione aggiornata di Freaks di Tod Browning del 1932. Un campionario di esseri grotteschi che per vivere espongono le loro anatomie postumane, che nel caso di Maresco sono fatte di tracce pattumate della televisione e della moda che deformano l’immaginario e l’immagine del mondo. Una olografia del trash quotidiano che nutre la moltitudine giovanile dei quartieri popolari e non.

 

Il finale di questo film mostra un dettaglio significativo. Un dettaglio apparentemente insignificante, poiché è posto a lato dei titoli di coda, ma che rivela, nella sua brevità, una chiave di lettura o uno spaccato dell’antropologia palermitana contemporanea, che in fondo è anche quella nazionale. Dopo quasi due ore di confessioni tra l’alter ego di Maresco (Tatti Sanguineti) e il procuratore di spettacoli popolari (Ciccio Mira), inframmezzati da confessioni parziali di Dell’Utri e del pentito Mutolo, a cui si aggiunge la drammaturgia dell’inno a Berlusconi che vede protagonisti due giovani cantanti, vengono poste a benestanti frequentatori di un locale domande analoghe a quelle poste ai neomelodici, e si scopre come un’apocalisse che non sono soltanto i quartieri popolari come Brancaccio, ad essere attori della deriva populista e paramafiosa del berlusconismo, ma sono anche i ben nutriti rampolli della Palermo bene che sfoggiano con orgoglio la loro indifferenza ai problemi del mondo fino al grottesco.

Infatti, per queste creature a bassa risoluzione intellettiva, con tanto di metalli fluorescenti addosso, corpi griffati, dentiere perfette e sorrisi da ebeti, che importa ricordare una data che storicamente ha segnato uno dei vertici della brutalità mafiosa con l’assassinio di un loro concittadino o di un magistrato? (Di fronte alla domanda che cosa diceva loro la data del 23 maggio - data dell’assassinio di Falcone - il vuoto cerebrale di questi rampolli rasenta la demenza).

Questo è uno dei punti più tragici del film.

Per altri aspetti il film di Maresco, più di tante argomentazioni giornalistiche e sociologiche, ci mette di fronte al nocciolo del problema del populismo e delle derive mafiose che negli ultimi vent’anni hanno preso in ostaggio non soltanto la Sicilia, come è evidente nel film, ma la nazione intera. Nel film la Sicilia non è più una “metafora” nazionale come diceva Sciascia, cogliendo nel segno le metastasi del suo tempo ma,  oggi, è l’artiglieria pesante che è stata utilizzata per affondare il paese nella speculazione, nella miseria, attraverso l’impostura dello spettacolo di massa. E non deve meravigliare se l’esperimento dei neomelodici palermitani che tra altre circostanze culturali hanno catalizzato e catechizzato all’anti-stato e alla pro-mafia i quartieri popolari della città, è alla stregua di quello messo in atto da Berlusconi con la nascita delle televisioni private, il cui ruolo nella depoliticizzazione e nello stravolgimento civile e democratico del paese, oggi, è sotto gli occhi di tutti.

Il film è stato apprezzato alla mostra del Cinema di Venezia e ha ricevuto la coppa Volpi, ovvero il premio della giuria. E' un giusto tributo a un regista che, prima con Ciprì, da qualche anno da solo, riesce a cogliere gli aspetti più nascosti del sottoproletariato palermitano e a farli diventare arte popolare, oltre che sottile ma implacabile denuncia politica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

( 10 settembre 2014 )



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