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Agostino e Falcone 

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Ne parliamo di Agostino e Falcone?

 

Abbiamo già parlato del provvedimento di avocazione intrapreso dal P.G. in merito alle indagini sull’omicidio Agostino. Non ci torneremo. Torniamo, invece, con alcune riflessioni sul fatto stesso, che a noi appare molto significativo.

Com’è noto, il Gip, Maria Pino, ha rispedito al mittente la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura, nella persone dei sostituti Di Matteo e Del Bene, poiché ha ritenuto che alcuni punti devono essere approfonditi meglio. I punti, in sintesi, sono:

  1. Riscontri alle parole del pentito Vito Lo Forte.
  2. Interrogare il pentito Vito Galatolo sul fatto.
  3. Riscontri alle parole del pentito Angelo Fontana.
  4. Riscontri alle parole del pentito Francesco Onorato.
  5. Recupero integrale della trascrizione dell’interrogatorio del prefetto Luigi De Sena davanti la procura di Caltanissetta e indagini su di esso.
  6. Confronto tra il padre di Agostino e l’ex poliziotto Aiello, il quale si pensa essere “Faccia da mostro”.

Adesso spieghiamo i punti:

  1. Alcuni anni fa il pentito Vito Lo Forte fece due nomi, Nino Madonia e Gaetano Scotto, quali esecutori dell’omicidio dell’agente Agostino e della moglie Ida Castelluccio. Il Gip ha ritenuto che nelle indagini non siano stati cercati riscontri alle parole di Lo Forte e quindi ha ordinato nuove indagini che si pongono come obiettivo di trovare riscontri alle parole del pentito. Queste le parole di Lo Forte: “«Ero in carcere quando successe l’omicidio  nel dicembre 1989, poi, mentre ero agli arresti domiciliari Pietro Scotto mi disse questa cosa (l’omicidio ad opera del fratello e Nino Madonia ndr). Gli interessava dire che il fratello era diventato importante»
  2. Vito Galatolo, rampollo della famiglia mafiosa dell’Arenella, pentitosi nel novembre del 2014 dopo l’arresto nell’operazione ” Apocalisse” del luglio dello stesso anno, ha intrattenuto rapporti con Gaetano Scotto e Nino Madonia in quanto elemento di spicco del mandamento di Resuttana, del quale la famiglia Galatolo fa tutt’ora parte. In virtù di tali legami il GIP vuole chiarire le conoscenze del Galatolo in merito a questo fatto.
  3. «Dovrà altresì tenersi conto – scrive il GIP – di quanto il collaboratore Angelo Fontana ha ritenuto di aver appreso da Angelo Galatolo, figlio di Giuseppe, e da Antonino Pipitone…”Angelo Galatolo è il cugino di Vito, nonché nipote del potente boss Giuseppe, dalla cui abitazione partiva il “battaglione della morte” che ha disseminato morti per la città ( da lì partirono i killer del vicequestore Cassarà) negli anni ’80. Secondo una figlia di Giuseppe Galatolo, Giovanna, e dello stesso Vito, tra i componenti di questo “battaglione” c’era anche “Faccia da mostro”, il misterioso killer estraneo a cosa nostra, in odore di servizi, che molti pentiti hanno riconosciuto in Giovanni Aiello, un ex poliziotto della mobile di Palermo negli anni ’70. Su questo e sulle parole di Angelo Fontana, della stessa famiglia dei Galatolo, il GIP intende chiarire le conoscenze di Galatolo.
  4. .”..sia di quanto dichiarato da Francesco Onorato, in merito al rapporto che anteriormente al 1992 sarebbe valso a legare Antonino Madonia, esponente apicale del mandamento di Resuttana, al funzionario della polizia Arnaldo La Barbera». Francesco Onorato, killer della famiglia di Partanna Mondello, ha recentemente affermato al Borsellino Quater che aveva ricevuto ordine di seguire il funzionario della Polizia di Stato Arnaldo La Barbera , il super poliziotto che gestì il falso pentito Vincenzo Scarantino, per ucciderlo, ma era stato fermato proprio dai Madonia che gli avrebbero riferito che La Barbera ” non si tocca” ed è “cosa loro”. Recentemente sia al Quater che al processo trattativa, Galatolo ha confermato le parole di Onorato sostenendo di aver sentito che ” La Barbera era al libro paga dei Madonia”. Alle accuse dei pentiti si aggiungono quelle del padre dell’agente Agostino il quale sostiene che fu proprio La Barbera a sottoporgli, già nell’89, una foto di Vincenzo Scarantino, ” il balordo della Guadagna” e falso pentito che si è autoaccusato di aver rubato la 126 esplosa in Via D’Amelio il 19 luglio del ’92, per individuarlo come il killer che avrebbe ucciso il figlio. La Barbera avrebbe inoltrato “depistato” le indagini intraprendendo un improbabile pista passionale e facendo sparire, tramite il suo fidato agente Paolilli, delle carte dall’armadio di D’Agostino. Paolilli, intercettato, dirà al figlio che ” in quell’armadio c’erano un fracco di carte che ho fatto sparire“. La sua posizione è stata archiviata in seguito all’avvenuta prescrizione del reato.
  5. Luigi De Sena, ex prefetto e uomo di punta del SISDE, fraterno amico del questore La Barbera, è stato interrogato dai pm di Caltanissetta in merito ai rapporti che il funzionario di Polizia avrebbe avuto con il servizio segreto civile. I pubblici ministeri qualche anno fa, rovistando tra gli archivi del SISDE, s’imbatterono in un fascicolo sui collaboratori del servizio e in esso trovarono la foto di La Barbera che veniva chiamato, in codice, Rutilius. Rileggendo le risposte del prefetto, il GIP ha giudicato “evasive” le sue risposte e ha ordinato la ripresa del verbale per valutare eventuali nuove indagini o la ri-convocazione dell’ex funzionario del servizio segreto civile.
  6. Per anni Vincenzo Agostino, padre di Nino, è andato alla ricerca dell’uomo che, con un immagine molto significativa e romanzesca, ha definito “Faccia da mostro”. Quest’ultimo, pochi giorni prima dell’omicidio, sarebbe venuto a casa dell’Agostino in cerca di Nino, non trovandolo poiché si trovava in viaggio di nozze. Nel corso degli anni diversi pentiti hanno parlato di quest’uomo con la faccia butterata e qualche anno fa, quando l’interesse nei confronti di questo personaggio si è fatto incessante, è stato individuato in un personaggio in congedo dalla P.S: Giovanni Aiello. Agostino ha sempre chiesto, invano, il confronto e in una trasmissione televisiva gli è stata mostrata una foto di Aiello: ” E’ lui!” ha detto Agostino e adesso il GIP ha ordinato il confronto.

L’omicidio dell’agente Agostino, ancor più di quello di Emanuele Piazza, è stato per anni avvolto in quell’alone di mistero tipicamente italiota che tutto fa tranne che portare risultati alle indagini. Su questo omicidio, come per la maggior parte dei “misteri” italiani, non c’è alcun mistero ma un groviglio di complicazioni, reticenze e depistaggi che hanno portato a non accertare elementi per giungere alla verità. La richiesta di archiviazione non è altro che il frutto di queste reticenze con un pizzico di leggerezza da parte degli investigatori.

La domanda che dovremmo porci innanzitutto è la seguente: chi era Nino Agostino?

 Agostino era un agente della polizia di Stato in servizio al commissariato di San Lorenzo diretto, allora, dal famoso commissario Montalbano ( quello vero). Era un’agente di pattuglia, non ricopriva nessun ruolo investigativo ne tanto meno faceva parte di squadre mobili atte a investigazioni riguardanti fatti di mafia. Insomma, Nino era uno di quei poliziotti che giornalmente troviamo per strada a girare con la “volante” in compagnia di un collega per il mantenimento dell’ordine pubblico.

E in uno di quei turni di “volante” avrebbe fatto una confidenza al collega di pattuglia:

 «Nino mi disse che collaborava con i servizi segreti per la cattura di Bernardo Provenzano. Nell’ ultimo periodo della sua vita appariva molto preoccupato, tanto da portare con sé la pistola anche in occasione di uscite in mare». 

Spesso si hanno più elementi nell’immediatezza dell’accaduto di quanto se ne possano avere nei mesi successivi. Soprattutto quando si parla di fatti “eclatanti” come l’uccisione di un poliziotto. Infatti questa confidenza non fu riferita anni dopo dal collega ma nell’immediatezza dell’accaduto, la sera stessa. Fu riferita, appunto, agli investigatori che allora si occuparono del caso: il poliziotto la Barbera e il magistrato Sciacchitano.

La Barbera, però, sembrò non fare caso a una “confidenza” così importante, così significativa, e nemmeno – a quanto pare – il magistrato Sciacchitano. Nelle settimane a venire, le indagini virarono verso in un improbabile pista passionale, un vorticoso giro di tradimenti ed ex fidanzate. Una pista, si scoprirà, assolutamente pretenziosa che avrebbe deviato dal vero fulcro della faccenda.

Giovanni Falcone, è noto, ebbe molto a cuore la vicenda. In quel periodo, dopo l’ignobile bocciatura del CSM per la guida dell’ufficio istruzione, Falcone divenne procuratore aggiunto presso la procura della Repubblica. Al funerale dell’agente, il magistrato farà una confidenza, in un momento di commozione, all’allora commissario di San Lorenzo Montalbano, capo di D’Agostino: ” a quel ragazzo devo la vita”. Cosa volesse dire con questa frase rimane, questo si, un “mistero”. Ma ci torneremo.

Soffermiamoci sulle indagini. Nell’immediatezza emersero degli elementi che fecero supporre un coinvolgimento di Agostino nel fallito attentato all’Addaura e un collegamento con l’omicidio dell’agente Piazza, che avvenne nel ’90. Ce lo ricorda Alfredo Morvillo, ex magistrato della procura di Palermo, nonché fratello di Francesca, moglie di Giovanni Falcone, al processo per il fallito attentato all’Addaura:

P.M. dott. TESCAROLI: – “Ecco, le risulta che il dottore Falcone abbia in qualche modo correlato questo fallito attentato per cui è processo alla scomparsa di Emanuele Piazza e dell’agente Agostino e della di lui moglie Ida Castellucci?
TESTE MORVILLO: – Mah, ricordo che se ne parlava allora, perché io allora mi occupavo del procedimento a carico di ignoti relativo alla scomparsa di Emanuele Piazza. Me ne sono occupato io e ricordo che già il dottore Falcone era in Procura, se non ricordo male, già era Aggiunto, e lui stesso volle seguire… volle seguire personalmente le indagini relative alla scomparsa di Emanuele Piazza e sapeva benissimo che il sequestro… un sequestro effettuato presso l’abitazione di Emanuele Piazza, il sequestro di una muta da sub e di attrezzature varie da sub, che, così, per quella che è la prassi operativa in questo tipo di indagine, cioè la scomparsa di un individuo, in sede di perquisizione andare a sequestrare una muta da sub non è una qualche cosa che solitamente accade. Il sequestro di oggetti che quantomeno in primo acchito non hanno nessuna attinenza con la scomparsa del soggetto di cui si tratta. In quel caso invece non in sede di prima perquisizione, ma in un secondo momento, a distanza di poche ore, gli ufficiali di Polizia Giudiziaria della Squadra Mobile ritennero di sequestrare questa muta da sub, effettuando un collegamento fra il rinvenimento di questa muta nell’abitazione del Piazza, le ipotesi investigative che non venivano scartate, e cioè della vicinanza del Piazza ai Servizi Segreti ed ogni eventuale pista investigativa per quello che poteva riguardare l’attentato all’Addaura. Facendo questo tipo di ragionamento venne sequestrata questa muta da sub; ripeto, ipotesi investigativa di cui il dottore Falcone era perfettamente a conoscenza e che certamente non riteneva manifestamente infondata. Quindi ne era perfettamente a conoscenza e
seguiva attentamente questo filone”).
………………………
P.M. dott. TESCAROLI: – “Ecco, per quanto attiene alla posizione,
diremo cosi’, la scomparsa, la eliminazione di Agostino e della moglie?
TESTE MORVILLO: – Mah, per quanto riguarda la scomparsa
dell’agente Agostino e della moglie un preteso collegamento con la scomparsa di Emanuele Piazza e conseguentemente prese collegamento con l’attentato all’Addaura, fu qualcosa che avvenne in epoca successiva, abbondantemente successiva. I due processi erano… sono sempre stati separati; soltanto, appunto, in epoca molto successiva furono riuniti…
P.M. dott. TESCAROLI: – Quando?

TESTE MORVILLO: – … in sede di Procura, e purtroppo la data non la ricordo, comunque ricordo, perché me ne occupavo io, che dopo un pò di tempo le due indagini vennero unificate proprio dopo che si evidenziò la eventualità di un collegamento. Però…
P.M. dott. TESCAROLI: – Sulla base di quali elementi di fatto?
TESTE MORVILLO: – Gli elementi adesso di preciso non ho un ricordo proprio dettagliato, però erano elementi che lo stesso dottore Falcone non riteneva particolarmente significativi, era… sembrava un’ipotesi investigativa piuttosto forzata e un po’ azzardata il collegamento Agostino – Piazza e conseguentemente Piazza – Agostino – attentato all’Addaura. Se non ricordo male, anche questo non veniva preconcettualmente scartata dal dottore Falcone, però lo ricordo anch’io, non c’erano elementi investigativi che avessero un minimo di certezza, un minimo di peso concreto che consentissero questi accostamenti” (vedi pagg. 52 – 55, trasc. ud. del 29 novembre 1999).

Morvillo non ricorda quando ” in epoca molto successiva”  vennero unificati i procedimenti. Noi invece ce lo ricordiamo, anzi ce lo ricorda il SISMI che in una nota del 5 marzo 1993 scrive:

«Centro controspionaggio di Palermo. Riservato. Oggetto: riapre l’ indagine sul delitto Agostino. Data 5 marzo 1993. Secondo quanto è stato possibile apprendere, il gip titolare dell’ inchiesta sarebbe in possesso di due memoriali consegnati dai familiari dell’ Agostino e del Piazza che avrebbero indotto il magistrato a riaprire i due casi, unificandoli. Nei memoriali di cui sopra, acquisiti dal gip, pare che siano contenute affermazioni di una certa gravità in merito al noto episodio del rinvenimento di un ordigno esplosivo nell’ estate del 1989 presso la villa all’ Addaura del dottor Falcone. Le ulteriori indagini proposte dal gip dovranno essere sviluppate nell’ ambito della Procura di Palermo da magistrato in via di designazione da parte del locale procuratore della Repubblica”.

Il 5 marzo del 1993 il capo centro del controspionaggio a Palermo si premura d’informare la prima divisione del Sismi di Roma che le indagini stanno per essere unificate a seguito dei memoriali che le famiglie delle vittime si sono premurati a far avere al GIP in cui compaiono elementi, evidentemente più significativi di quelli che aveva in mano Falcone, per unificare i due casi in relazione al fallito attentato dell’Addaura. Inutile dire che un capo centro del controspionaggio non si mobilita con un’informativa a Roma per tutte le inchieste che vi sono in procura ed è scontato dire che quella inchiesta dovesse rappresentare fonte d’interesse del SISMI. Bisogna capire quale interesse.

La sopracitata informativa viene trovata dai pm Gozzo e Di Matteo molti anni dopo. Non è un documento, ovviamente, che cade nelle mani di un magistrato nell’immediatezza dell’unificazione ma viene “rilasciata” successivamente.

Nel ’90 quando Falcone, da aggiunto, lavora come coordinatore al caso, non ritiene manifestatamente infondata l’ipotesi di un collegamento tra i due omicidi ma si tratta di un ipotesi investigativa di cui egli era conoscenza. Non che la condividesse in toto, non che fosse convinto del collegamento ma semplicemente che non escludeva l’ipotesi. Questo è quello che si evince dall’audizione di Morvillo.

 A questo punto bisogna chiedersi perché il SISMI s’interessa. C’è da dire che, almeno io, non conosco informative dei servizi segreti nell’immediatezza del caso e quindi non sappiamo se ci furono, ma suppongono di si e in abbondanza, mobilitazioni da parte dei servizi. Noi conosciamo questa e su questa ragioniamo.

Dunque il SISMI s’interessa e i possibili scenari sono questi:

  1. Controllano le indagini perché temono l’unificazione.
  2. Controllano perché vogliono capire qualcosa sul caso.
  3. Controllano perché vogliono capire dove vanno a parare le indagini.

Nel prosieguo del ragionamento occorre, a questo punto, fare una precisazione. I due servizi segreti, SISMI e SISDE, non erano la stessa cosa, come non lo sono oggi AISI e AISE. Spesso e volentieri, anzi, sono in profonda competizione e con obiettivi completamente diversi l’uno dall’altro. Ciò era dettato sia dalle loro funzioni, sia dalle loro dipendenze. Il SISDE – servizio segreto interno – era l’organo preposto alla sicurezza interna, quindi al recupero di tutte quelle informazioni utili alla sicurezza interna allo Stato italiano e dipendente dal ministero dell’interno, mentre il SISMI – servizio segreto militare – era l’organo predisposto al recupero di informazioni utili per lo Stato italiano per quanto riguarda questioni di ordine geopolitico e strategico e dipendente dal ministero della difesa. Quando le funzioni si accavallano, come informazioni di ordine interno ma che hanno un interesse geopolitico e strategico, avviene per l’appunto una cointeressenza d’interessi che rende i due servizi in profonda competizione.

La tana del potere, inoltre, diventa “tana” quando il proprietario di casa ha le chiavi dei servizi. Per mantenere il potere, infatti, è necessario avere il controllo dei servizi ( vi dice niente Vladimir Putin?). Quando un gruppo di potere “emerge”, invece, significa che è supportato dai servizi segreti. In ogni caso, da qualsiasi punto lo si voglia vedere, il potere passa sempre attraverso l’intelligence che si muove per e da esso. Se un servizio, o addirittura dei membri dei servizi, risponde(ono) a un determinato gruppo di potere, agiscono in base alle esigenze di esso, mentre l’altro viene indebolito.

Di certo se qualcosa o qualcuno mina l’instabilità del paese, scoperchiando fatti che rischiano di mettere in crisi il “sistema”, l’intelligence di certo non si fa scrupoli.

Per queste ragioni il mondo dell’intelligence, per dirla alla Fulci, è un un mondo complicato e complesso. Come è complicata e complessa la geopolitica.

Per capire la complessità delle questioni che riguardano l’intelligence, prendiamo ad esempio il fallito attentato all’Addaura a Giovanni Falcone, vicenda per la quale, molto spesso, si è pensato a un coinvolgimento di Agostino e Piazza. Di norma la vicenda viene considerata rivolta solo contro la persona di Giovanni Falcone, il mio pensiero è che, invece, gli obiettivi della bomba fossero Giovanni Falcone e gli altri due magistrati, facendo sembrare, per l’appunto, la morte di questi ultimi come casuale accidentale in modo da depistare le successive indagini per quanto riguarda il movente dell’attentato. E’ questo – secondo noi – il senso dell’espressione menti raffinatissime con la cointeressenza di centri occulti di potere che il magistrato palermitano volle fermamente affermare nella famosa intervista al giornalista Saverio Lodato.

Infatti affermare che l’attentato era rivolto a Giovanni Falcone è diverso dall’affermare che l’attentato era rivolto a Giovanni Falcone e a i due magistrati svizzeri. Il primo periodo indica che la bomba doveva esplodere per le indagini, il vissuto professionale e l’opera investigativa di Giovanni Falcone, insomma avrebbe dirottato le responsabilità nella sola matrice mafiosa, soprattutto se si pensa cosa rappresentasse Giovanni Falcone in quel periodo ( l’uomo che aveva dato scacco alla mafia istruendo il maxi processo), mentre il secondo afferma una cosa molto diversa: la bomba doveva esplodere per fermare le indagini in co-tutela con la Svizzera, da sempre terra franca per i traffici finanziari, eliminando i punti di convergenza, appunto Falcone e i due svizzeri, tra le due nazioni e gettando responsabilità non nella sola mafia ma in tutto il complesso finanziario criminale concernente, appunto, quei centri occulti di potere di cui il magistrato parlò nell’imminenza. Ecco dove sta la raffinatezza dell’operazione, in quello che sarebbe successo se la bomba fosse esplosa dal punto di vista investigativo. Sappiamo tutti che la bomba non esplose.

Alla fine degli anni ’80, in “coincidenza” con il dissolvimento dell’URSS, la mafia era entrata in un nuovo sistema di acquisto degli stupefacenti che prevedeva l’acquisto di pacchetti finanziari dalla Svizzera. Nell’88, anno del fallito attentato, Giovanni Falcone lo aveva intuito ma dal punto di vista investigativo non ne aveva le prove. Un’operazione congiunta con l’FBI e criminalpol, da lui coordinata, sarebbe avvenuta nel 1990 e avrebbe fermato un traffico di droga che coinvolgeva il cartello sud-americano dei Medellin, il clan statunitense dei Galatolo e i Madonia di Palermo. L’operazione Seaport – cosi venne chiamata – fermò un traffico di droga internazionale che però mise il solito pallino in testa a Falcone: che giro facevano quei soldi e come veniva riciclati i proventi del traffico?

L’indagine con rogatoria internazionale e con i due magistrati elvetici si occupava anche di questo. Dato emblematico è che il fallito attentato avvenne proprio nel territorio dei personaggi mafiosi coinvolti in quel traffico di droga. L’Addaura, una frazione della località balneare di Mondello, è zona appartenente al mandamento mafioso di Resuttana. Non lo è Mondello che, invece, appartiene al mandamento mafioso di San Lorenzo guidato, allora, da Salvatore Biondino ( il mafioso arrestato insieme a Salvatore Riina). Il mandamento di Resuttana era guidato storicamente dai Madonia che avevano messo in piedi quel traffico di droga internazionale.

Dal punto di vista mafioso è assolutamente lineare che l’interesse a uccidere Giovanni Falcone dovesse e potesse venire dal mandamento dei Madonia: non solo il “luogo” ricadeva nel loro mandamento ma c’era anche un forte movente per voler uccidere il magistrato. Se avessero voluto, l’avrebbero ucciso in qualsiasi altra occasione, come effettivamente fecero nel ’92 ( ci torneremo), invece aspettarono l’occasione particolare: la villeggiatura con la presenza dei magistrati svizzeri.  E’ inutile, nonché stupido, pensare che la mafia potesse attuare un’operazione così raffinata come quella sopra elencata. Furono “consigliati”.

Naturalmente se viene messo in piedi un nuovo sistema di traffico di droga con l’acquisto di pacchetti finanziari è logico che ciò NON PUO’ avvenire per mezzo di cartelli sud-americani, mafiosi americani e siciliani. Ciò deve avvenire per mezzo di intermediari finanziari e – opinione mia – parastatali. Ecco i centri occulti di potere. Ecco le menti raffinatissime. Ecco a cosa stavano andando incontro i tre magistrati con la loro indagine.

Tanto più se, in quel ’90, un forte contributo alle indagini che culminarono nell’operazione Seaport venne da un collaboratore importante: Joe Cuffaro. Questa la cronaca dell’operazione:

PALERMO CHIAMA MEDELLIN

PALERMO Il mercantile batteva bandiera cilena ed era salpato un mese prima dalla baia di Aruba, uno scoglio nel mar dei Caraibi. Trasportava concime, c’ era un grossista spagnolo che aspettava il carico. Ma quella vecchia carretta dopo Gibilterra ha navigato avanti tutta ancora per tre giorni e tre notti, fino alla Sicilia, fino alle spiagge bianche di Castellammare del Golfo. Nelle sue stive c’ erano 596 chili di coca, un mafioso l’ aveva comprata per 12 milioni di dollari. Un vecchio mercantile Il comandante del malandato cargo Big John è stato, forse senza nemmeno saperlo, il testimone oculare del più grande accordo criminale di fine secolo: il patto tra Cosa Nostra e gli uomini del cartello di Medellin. Questa è la cronaca di un’ indagine poliziesca che da Palermo porta prima in Florida e poi in Colombia, la ricostruzione di un affare che stravolge il mercato europeo degli stupefacenti, è la storia dell’ inchiesta classificata Seaport, operazione porto di mare. Nella rete della Criminalpol e dell’ Fbi sono caduti 14 trafficanti siciliani e colombiani, la procura distrettuale di Miami ha lavorato fianco a fianco con quella di Palermo, le investigazioni hanno sfiorato boss di mezzo mondo. Per la prima volta abbiamo saldato in un unico contesto le tre capitali della droga, Palermo, New York e Medellin, dice il sostituto Giusto Sciacchitano che con Falcone e Carrara ha seguito passo dopo passo tutte le fasi del blitz. Nell’ indagine c’ è anche un pentito, è un siculo-americano, si chiama Joe Cuffaro. Ma le sue rivelazioni sono state solo una preziosa conferma al lavoro investigativo, una prova in più per decifrare i nuovi obiettivi di Cosa Nostra, l’ assalto alla cocaina. Fino all’ anno scorso, conferma Gianni De Gennaro, il questore del nucleo centrale anticrimine che coordina le grandi indagini di mafia, la porta dell’ Europa per i clan colombiani era la Spagna. Adesso dovremo rivedere le nostre carte. L’ operazione Seaport prende corpo nelle stesse settimane da una parte all’ altra dell’ Atlantico.. Il primo scenario è la lussuosissima villa di John Galatolo su una spiaggia della Florida. Galatolo è cittadino americano da 35 anni ma è nato a Palermo, dove vivono ancora tre suoi cugini, tre uomini di rispetto della borgata marinara dell’ Acquasanta. A Miami John riceve sempre notizie dalla Sicilia, alla fine dell’ 87 gli arriva anche un consiglio dalla famiglia. Gli dicono di informarsi un pò sui prezzi, sul trasporto, sui guadagni che si possono fare con la coca. Chi lo vuole sapere è più che un amico, è il capo mandamento di una zona di Palermo che comprende anche l’ Acquasanta. E’ un ordine di Francesco Madonia. John Galatolo non perde tempo e informa i suoi amici di Miami Paolo Lo Duca e Rosario Naimo. Chiede aiuto anche ad un esperto del ramo, Domenico Nick Mannino, un trafficante inquisito due anni prima da Falcone. Nell’ affare, gli avevano raccomandato i cugini di Palermo, devono entrarci tutti. C’ è anche Joe Cuffaro, un fidato corriere. E così ecco una mezza dozzina di siculo-americani che prende contatto con i rappresentanti in Florida del cartello di Medellin. Sono due fornitori conosciutissimi a Miami, Valdo Aponte e Angel Sanchez. Ci si presenta, si discute, si spiega come e quando far partire la coca. Joe Cuffaro è sempre con loro. Gli agenti speciali del Federal Bureau of Investigation tengono d’ occhio la compagnia con discrezione, sulla scrivania del procuratore distrettuale Vic arriva un primo fascicolo su quegli strani incontri tra siciliani e colombiani sotto le palme di Miami. Un business di miliardi E a Palermo che succede? A Palermo i boss pensano in grande, hanno capito che devono mettere le mani sul traffico di cocaina per spiazzare la mala spagnola e giocare di anticipo con il clan dei marsigliesi. L’ ala vincente di Cosa Nostra delega a Francesco Madonia e a suo figlio Nino la gestione del business con i colombiani. La linea che scelgono è molto chiara fin dall’ inizio. Primo: l’ accordo con il cartello di Medellin deve prevedere l’ importazione di grosse spedizioni via mare senza usare mai i corrieri. Secondo: la mafia siciliana vuole l’ esclusiva della coca in Europa e garantendone lo smercio. Terzo: le navi cariche di coca devono tornare negli Usa cariche di eroina. Cosa Nostra detta le sue condizioni, Joe Cuffaro fa il portaordini a Miami in un incontro con Aponte e Sanchez, dalla Colombia danno il via libera. Il primo carico che suggella il patto di ferro tra le due mafie sbarca sulla costa di Castellammare del Golfo tra il 9 e l’ 11 gennaio del 1988. Sono quei 596 chili di coca nascosta sul mercantile Big John. Il pagatore è Nino Madonia, il prezzo che gli fanno i colombiani è di 20 mila dollari il chilo. Come fanno i poliziotti della Criminalpol e della squadra mobile di Palermo a conoscere tutti questi particolari sugli affari di Cosa Nostra? E’ stato il pentito Cuffaro a raccontarglieli? Solo in parte. L’ indagine sui colombiani s’ è intrecciata quasi per caso con l’ inchiesta nata dalle rivelazioni di Francesco Marino Mannoia. Ci sono i segugi della mobile che seguono i movimenti di Madonia (Mannoia lo aveva indicato come un boss emergente) e arrivano ai cugini di John Galatolo, arrivano alle loro attività al porto di Palermo, arrivano soprattutto in quel covo dove alla vigilia di Natale viene trovato un libro mastro della mafia. Tra conti e sfilze di numeri ci sono tracce dei pagamenti girati via-Miami ai colombiani. Ci sono nomi che vanno dritti a Medellin. Il profitto dei mafiosi sui 12 milioni di dollari investiti? Hanno quadruplicato quella cifra, rispondono giudici e investigatori. Le diapositive della verità Joe Cuffaro, che si era pentito per evitare una condanna a 24 anni per un altro traffico di stupefacenti, conferma tutto. Racconta anche un particolare curioso. Il comandante del mercantile, Alen Knox, cittadino britannico residente a Bogotà, ha rischiato di annegare al largo di Castellammare del Golfo mentre si trasbordava la coca su un peschereccio. Poi, tra la sorpresa degli agenti speciali dell’ Fbi e dei poliziotti italiani, il pentito ha tirato fuori cinque o sei diapositive. Aveva fotografato le operazioni di imbarco della coca sull’ isola di Aruba. L’ organizzazione usa così, vuole sempre documentare con precisione tutti i suoi affari, ha spiegato all’ Fbi.

di ATTILIO BOLZONI

23 febbraio 1990
E’ una cronaca di un fatto specifico e ovviamente il giornalista non può andare nei particolari del pentimento e delle rivelazioni di Cuffaro. Venti giorni prima il suo collega, Francesco Viviano, era stato più specifico. E a noi interessa questo articolo: 

MAFIA, ORA SPUNTA UN NUOVO PENTITO

PALERMO E’ un siculo-americano il Valachi che ha consentito alla Dea, l’ ente antidroga americano, di conoscere i segreti dei traffici di eroina e cocaina della potentissima famiglia dei Caruana e dei Cuntrera, ritenuti i più grandi trafficanti del mondo. Il suo nome è Joseph Cuffaro, meglio conosciuto col diminutivo di Joe, che per anni per conto di potenti boss siculo-americani, ha tenuto i contatti con i narcotrafficanti colombiani e con i padrini di Cosa nostra in Sicilia. Le sue rivelazioni e le indagini svolte dalla polizia americana sono state acquisite nei giorni scorsi dal procuratore aggiunto Giovanni Falcone che nel dicembre scorso aveva incriminato Alfonso Caruana ed altri esponenti della cosca nell’ ambito di un’ inchiesta sul riciclaggio di migliaia di narcodollari. Indagini che sono state estese anche nel Canada e nel Venezuela dove i Caruana ed i Cuntrera hanno sicure e solide basi operative. Le rivelazioni di Joe Cuffaro hanno già consentito agli investigatori americani di mandare a giudizio dodici grossi esponenti della mafia siculo-americana che gestivano il traffico di eroina e cocaina nel Nord America. Ma Joe Cuffaro ha rivelato anche molti altri particolari sui collegamenti tra la mafia americana, Cosa nostra siciliana e i trafficanti colombiani del cartello di Medellin. Joe Cuffaro avrebbe fra l’ altro riferito di una spedizione di 600 chilogrammi di cocaina che nell’ ottobre del 1987 furono spediti dalla Colombia e sbarcati su una spiaggia dell’ agrigentino. Quel carico era destinato al clan della famiglia Madonia. Una spedizione della quale ci sarebbero tracce nel libro mastro sequestrato il mese scorso in un covo del presunto boss Antonino Madonia, arrestato in una villa del quartiere San Lorenzo a Palermo. Joe Cuffaro molto probabilmente sarà ascoltato dal giudice Falcone e dal sostituto procuratore Carmelo Carrara che seguono il filone italiano dell’ inchiesta. Cuffaro sarà sentito nella sua residenza segreta negli Stati Uniti dove vive sotto la protezione delle autorità americane. Il nuovo Valachi era stato arrestato nel 1988 a Baden Baden, nella Germania federale, insieme a Pasquale Caruana. I due si trovavano nella cittadina tedesca per una sosta tecnica. La loro destinazione finale era la Svizzera dove c’ era la base finanziaria della potente cosca dei Caruana-Cuntrera. Joe Cuffaro aveva proprio il compito di curare la parte economica dell’ organizzazione, la transazione di grosse operazioni finanziarie con le banche elvetiche per i versamenti delle ingenti somme provenienti dal traffico degli stupefacenti e per i pagamenti delle partite di eroina e cocaina ai trafficanti mediorientali e colombiani. La base svizzera era stata individuata dall’ Interpol sulla base delle segnalazioni degli investigatori americani che per due anni avevano pedinato ed intercettato conversazioni telefoniche tra i vari esponenti delle famiglie siculo-americane.Joe Cuffaro, emigrato da Palermo negli Usa quando aveva poco meno di dieci anni, aveva intestati tre conti in altrettante banche tailandesi, conti che erano utilizzati per il pagamento ai fornitori di eroina del triangolo d’ oro, Laos, Cambogia e Tailandia.

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03 febbraio 1990
Due anni prima del pentimento di Cuffaro l’interpol – su indicazione dell’FBI – aveva individuato ” la base svizzera” dove Cuffaro aveva il compito di curare ” le transazioni finanziarie con le banche elvetiche”. Due anni prima, cioè un anno prima del fallito attentato a Falcone e i due magistrati svizzeri. L’indagine sulla quale stavano lavorando toccava questi tasti, molto dolenti. E’ normale: Falcone aveva l’ossessione dei capitali tanto da dire sempre che bisognava seguire i soldi per trovare il mafioso ma in questo caso, mi sembra, che trovò molto altro. L’articolo non prova quello che sopra ho riferito ma ci introduce a “un nuovo mondo” nel quale la mafia, alla fine degli anni ’80, si era introdotta. Non significa, però, che la mafia scopre la finanza da questo momento. L’aveva scoperta molto tempo prima con Sindona, anche se i magistrati non sono mai riusciti a provarlo, e di certo altre “transazioni” erano state fatte. Quello che c’è di nuovo è – a mio avviso – l’immissione della mafia in un nuovo sistema di ordine strategico e geopolitico. Flussi di denaro che, nel dissolvimento dell’unione sovietica, venivano “trafugati” transitando da est a ovest andando a finanziare le associazioni criminali: 

DOPO L’ OMICIDIO FALCONE

stava indagando sui fondi del PCUS?

secondo ” Isvestia ” una possibile pista per la strage e’ anche quella dei finanziamenti ai partiti comunisti provenienti dall’ URSS. i contatti tra Falcone e Stepankov

————————- PUBBLICATO —————————— TITOLO: Stava indagando sui fondi del Pcus? – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – DAL NOSTRO CORRISPONDENTE MOSCA . Tra la fine di maggio e i primi di giugno, Falcone sarebbe dovuto venire a Mosca per coordinare le indagini sul trasferimento all’ estero dei soldi del Pcus. La notizia e’ stata pubblicata ieri con risalto da Isvestia, secondo cui l’ omicidio del magistrato “puo’ avere qualche legame con gli avvenimenti in Russia”. Secondo il quotidiano, solitamente attendibile, Falcone sarebbe stato incaricato di coordinare le indagini sul riciclaggio dei fondi del Pcus in Italia, “su invito dell’ ex presidente Cossiga”. Il magistrato ucciso, scrive ancora Isvestia, “lavorava in coordinazione con la brigata speciale che si occupa della medesima indagine a Mosca”. Da mesi, la questione dei fondi trafugati dal Pcus all’ estero prima del crollo del regime comunista appassiona l’ opinione pubblica sovietica. E l’ Italia, secondo Isvestia, “faceva parte del ristretto numero di Paesi in cui i soldi del partito e dello Stato sovietico scorrevano a fiumi: solo negli anni ‘ 70, 6 milioni di dollari erano trasferiti annualmente dal Politburo come “aiuto fraterno”. “Non e’ escluso . scrive Isvestia . che i soldi del partito e dello Stato fossero pompati nelle strutture occulte italiane per altre strade: attraverso Paesi terzi, sotto forma di tangenti per contratti svantaggiosi, e come profitti derivanti dal traffico illegale di oro e di altri preziosi… L’ Italia non era scelta a caso per gli investimenti del partito. Le strutture della mafia molto sviluppate, la posizione di forza dei comunisti locali, i solidi contatti stabiliti da tempo, tutto cio’ prometteva grandi profitti agli investitori del Pcus”. Il presidente russo Boris Eltsin aveva gia’ chiesto la collaborazione delle autorita’ italiane all’ inchiesta quando venne a Roma in dicembre in occasione della sua prima visita all’ estero. Della questione, e della cooperazione tra magistratura italiana e russa, si era parlato ancor piu’ in dettaglio durante la visita del presidente Cossiga a Mosca, in marzo. Tuttavia, secondo Isvestia, gia’ alla fine dell’ anno scorso, il procuratore generale della Russia, Valentin Stepankov, aveva incontrato Giovanni Falcone a Roma. I due “si scrivevano costantemente, concordavano incontri di persona e pianificavano azioni comuni dei giudici italiani e russi…”. Il giornale adombra l’ ipotesi che i miliardi trafugati dal Pcus in Italia potessero essere riciclati non solo in imprese legali, ma anche e soprattutto attraverso canali mafiosi. In questi giorni la Corte costituzionale russa sta discutendo la legittimita’ del decreto di scioglimento del Pcus. E sui giornali si assiste ad un martellamento di articoli contro il vecchio partito. A. Bo.

Bonanni Andrea

Questo articolo del Corriere è di soli quattro giorni dopo la morte di Giovanni Falcone. Indagini su questo filone d’inchiesta non ne sono mai state fatte anche perché quando uscì questa notizia, la cui conferma arrivò dallo stesso Martelli che disse del biglietto per Mosca di Falcone, il suo dicastero si affrettò a smentire categoricamente ( si ringrazia Enrico Tagliaferro per questa importante precisazione).

Se ciò risultasse vero, il nostro paese era in una posizione geopolitica e strategica molto particolare. Una posizione che la nostra intelligence doveva proteggere sia perché se il nostro tessuto economico era inquinato da questi flussi tanto da diventare “fondamentali” per la nostra economia, l’intelligence li doveva salvaguardare sia perché se questi flussi erano sommersi, e quindi all’oscuro dei nostri alleati, tali dovevano rimanere.

Ciò spiegherebbe la grande stima che l’FBI nutriva nei confronti di Giovanni Falcone e il motivo per il quale si propugnò a inviare una squadra investigativa per indagare sulla strage di Capaci. Spiegherebbe tante cose.

Ricapitolando. La mia idea è che dalla fine del maxiprocesso Giovanni Falcone s’imbatté in indagini che lo portarono a capire il nuovo mondo nel quale la mafia si era inserita, un “nuovo mondo” che – temendo il magistrato – decise di fermarlo insieme a quei magistrati che potevano arrivare a verità destabilizzanti in un quadro geopolitico e strategico complicato. L’attentato all’Addaura, prodotto da menti raffinatissime, fu il tentativo di eliminare quella minaccia cercando, allo stesso tempo, di far passare la bomba come un prodotto disola mafia. L’attentato fallì e Falcone capì cosa stava avvenendo. Disse infatti: “Io ho capito tutto, ma loro mi devono lasciare in pace”. Una frase che per un magistrato coraggioso e di certo non lascivo, tuona come una presa di coscienza del gioco grande nel quale si era infilato. Nell’anno successivo Falcone comincia a capire sempre di più, le dichiarazioni di Joe Cuffaro cominciano a delineargli un quadro preciso, sempre più preciso, che lo portano a considerare, nel ’91, l’incarico al ministero come un’opportunità per lavorare a un quadro più internazionale e incisivo. Un’incarico che lo porta dalla Svizzera, con continui contatti con l’FBI, a Mosca con il compito di dirigere le indagini sui fondi del PCUS in Italia. Un’indagine pericolosissima, culmine delle indagini che lo videro protagonista negli anni precedenti, che lo avrebbe portato a scoperchiare elementi destabilizzanti sia per i nostri equilibri economici sia per i nostri interessi economici e strategici. Culmine, infine, che sarebbe stata la sua condanna a morte.

Questa lunghissima dissertazione, che sembra apparentemente divagare dal tema di questo testo, è stata – in realtà – veramente necessaria. Con tutta questa storia che c’azzeccano Piazza e D’Agostino?

C’azzeccano perché se Falcone, in preda alla commozione, ha voluto dire che a quel ragazzo gli devo la vita qualcosa vorrà pur dire.

E vorrà pur dire qualcosa che, in base a quello che dice Morvillo, Falcone non vedeva in maniera perentoria un collegamento tra i due omicidi. Lo riteneva possibile ma non sicuro.

Ma qualcuno ha mai considerato la probabilità che soltanto uno dei due potesse sapere qualcosa in merito all’Addaura? E quel qualcuno potesse essere Agostino?

Falcone parla di lui quando dice “a quel ragazzo gli devo la vita”. Parla al singolare, non al plurale. S’interessa dei suoi viaggi a Trapani. Chiede a Roma i fascicoli di Gladio per capire.

E del resto gli investigatori depistano sul suo caso, non sulla scomparsa di Piazza. I documenti spariscono dal suo armadio e faccia da mostro viene a cercare lui. Alla fine i colpevoli non sono stati trovati nell’omicidio di Agostino, non di Piazza per il quale sono stati condannati Onorato, in quanto esecutore materiale, e Biondino in quanto mandante.

Insomma, l’attenzione è rivolta sempre e comunque all’omicidio Agostino ed è molto probabile che Agostino sapesse qualcosa – evidentemente di molto importante – su quel fatto per il quale si attivò una macchina, come abbiamo visto, molto potente.

Se il quadro che ho delineato qui sopra, sia per quanto riguarda Agostino sia per Falcone, dovesse essere corretto, si spiegherebbe l’attenzione del SISMI nei confronti delle indagini che ruotano attorno al fallito attentato.

Se vi era un interesse geostrategico, questioni di natura nazionale e sovranazionale, il SISMI era motivato ad attenzionare e a produrre notte sugli sviluppi delle indagini soprattutto se quell’attentato è fallito rispetto alla sua intenzione iniziale.

E per tutte queste motivazioni sarebbe interessante approfondire il penultimo punto: le dichiarazioni “evasive” di De Sena in merito agli incarichi di copertura ricoperti da La Barbera al Sisde.

Ci torneremo perché, anche qui, bisogna mettere i puntini sulle “i”. Nulla è quello che sembra.

E la logica non è un opinione.

( 20 luglio 2015 )



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