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Peppino il ribelle

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Peppino, il ribelle

 

Ribelli si nasce  o si diventa? La rivoluzione salta in aria con cinque chili di tritolo,  in una tiepida notte di primavera, lasciando in giro minutissimi frammenti, oppure è qualcosa che ti accompagna  dove ci sono ingiustizie da sanare, violenze, tirannie,  miseria? E Peppino Impastato è nato “diverso” in un paese mafioso come Cinisi o lo è diventato a causa di “cattive” amicizie, di “cattivi” maestri, di letture “sbagliate”?  E’ diventato così perché aveva una madre come, Felicia, ribelle, o perché  era costretto a subire le violenze del padre Luigi che “voleva imporgli il suo codice comportamentale”?   Luigi apparteneva a una famiglia storicamente mafiosa, era stato al confino, aveva rafforzato il suo prestigio quando il capomafia Cesare Manzella, che passava per un benefattore, aveva sposato sua sorella: non esercitava un ruolo di primo piano,  ma era “ntisu”,  ascoltato. Portava per mano il piccolo Peppino a tutte le manifestazioni in cui erano presenti i mafiosi e contava di farne il suo erede in tutti i sensi. Felicia apparteneva a una famiglia benestante: aveva fatto parlare di sé quando, una settimana prima delle nozze, con il corredo esposto, aveva “rotto” il matrimonio, dicendo di non amare la facoltosa persona sceltagli dal padre e intimandogli di non ricorrere a gesti come la “fuitina”, altrimenti avrebbe denunciato tutti. Un altro esempio della sua fermezza lo aveva dato quando Luigi venne sorpreso da un  marito geloso e  costretto a scappare in mutande: Felicia lo aveva  lasciato, aveva portato con sé i bambini ed era andata ad abitare a casa di suo fratello: solo due mesi dopo, grazie alla perentoria mediazione di  Cesare Manzella , si era decisa a tornare.  Qualche anno prima aveva perso un figlio per una sospetta meningite e, temendo che Peppino potesse essere contagiato, lo aveva affidato a sua sorella Fara e a suo fratello Matteo, un socialista che lasciò una forte impronta nell’educazione di Peppino.  Gli anni ’60 furono brutti: nel 1963 Cesare Manzella, in combutta con il clan dei corleonesi di Luciano Liggio, diverse volte ospite a casa sua, e con la cosca dei Greco di Ciaculli, era saltato in aria con la sua giulietta e Luigi, per precauzione si era “cantiatu” , nascosto, aveva accompagnato la famiglia a Contessa Entellina, dove viveva un suo fratello, soprannominato “Sputafuoco”,  gabelloto dell’onorevole Pecoraro. Peppino frequentò il liceo classico di Partinico, assieme a un gruppetto di  compagni , tra i quali i due figli del segretario della sezione del PSIUP, un partito nato in quegli anni dai “ribelli” del  PSI, che non avevano condiviso l’adesione al centrosinistra.  I ragazzi cominciarono ad organizzarsi con  un giornale, “L’Idea socialista”, una novità per un paese culturalmente stagnante: ciclostilo, matrice, inchiostro, carta, spillatrice e distribuzione gratuita: inchieste sulla difficoltà dei rapporti interpersonali, un dirompente servizio di Peppino, “La mafia è una montagna di merda”, inchieste sull’ assenza di strutture sportive, vignette, poesie ed altro, fino a quando il sindaco non denunciò  la redazione  priva di un direttore responsabile. Il processo si concluse con una multa e fu il primo contatto di Peppino con un tribunale. Se il PCI aveva come punto di riferimento Mosca, il PSIUP guardava con più attenzione a Pechino e all’esperienza della rivoluzione culturale. A Cinisi circolava molto materiale filocinese, soprattutto gli scritti di Mao, proveniente dall’Associazione Italia-Cina. Intanto  si consumava una drammatica lacerazione tra Peppino e suo padre:  non era questo il figlio che Luigi voleva, meno che mai un comunista. Si arrivò alla rottura e Luigi buttò fuori di casa il figlio ribelle, per dare una dimostrazione al paese e ai suoi amici, di quanta distanza ci fosse tra lui e il figlio. Peppino trovò un garage in affitto che divenne sede del Circolo Che Guevara: vi campeggiavano quattro grandi manifesti di Marx, Engels, Mao e Lenin. Sopravviveva con quel po’, abiti, libri, vestiti, che sua madre gli portava di nascosto. Maturavano altre cose: la scellerata scelta di costruire un aeroporto civile per Palermo su una striscia di terra tra le montagne e il mare, dopo un decennio aveva reso necessaria la costruzione di una terza pista trasversale, per evitare pericolosi vuoti d’aria, frequenti nelle giornate di scirocco. A Cinisi si era costituito un consorzio  di espropriandi che chiedevano   il pagamento anticipato delle terre, per  comprare qualche altro luogo dove continuare a lavorare. Fu quello il battesimo di fuoco nell’attività sociale di Peppino. Assemblee con i contadini, cortei, comizi, manifestazioni in piazza o per strada lo portarono al contatto con le mitiche “masse”  e a scontrarsi  con la violenza del potere.  Furono calpestate tutte le norme previste per gli espropri e si verificò una vera e propria occupazione militare con cariche di polizia, arresti, sventramento delle case dove abitavano i contadini, processi, condanne, valutazione irrisoria dei terreni e pagamento dopo quattro o cinque anni, in pratica la distruzione dell’economia  agricola di Cinisi. Dopo  questi fatti maturò la definitiva rottura col  PCI, che aveva abbandonato la lotta già da tempo, perché l’aeroporto “si doveva fare”. Le scelte di Peppino  si orientarono prima verso la Lega dei Comunisti e poi verso il PCD’I m-l, un partito filocinese che chiamava quelli del PCI “revisionisti”  e  professava una convinta ortodossia marxista legata al principio della rivoluzione come momento indispensabile per costruire una società comunista. In quel partito rimase poco meno di un anno e poi fu espulso per indisciplina. Scoppiava il ’68 e fu un’ubriacatura di idee, novità, letture, proposte, scelte, azioni.  “L’uomo a una dimensione” di Marcuse o “Ribellarsi è giusto”, di J.P.Sartre e Gavi erano letture pressocchè obbligatorie, ma Peppino comprava molti altri libri pagandoli a rate. Nel 1972 La candidatura di Valpreda nelle liste del “Manifesto” rappresentò un forte momento d’impegno e, ancor più, qualche anno dopo, la creazione del circolo “Musica e cultura”, che  fu un esaltante  momento legato da una parte alle idee del movimento del ’77, dall’altra ancorato a Lotta Continua. I duecento giovani che ne facevano parte si dedicavano a tutto, dai cineforum ai dibattiti sulla repressione sessuale, sull’uso delle droghe, sul nucleare, sulla questione palestinese, alla ridicolizzazione degli atteggiamenti e delle usanze della borghesia locale, quasi tutta collusa con la mafia.  

 L’ultimo passaggio della sua vita fu Radio Aut, costruita con poveri mezzi, ma efficace nel denunciare gli intrecci tra mafiosi e politici e le loro speculazioni. La radio come strumento d’informazione dal basso e di formazione politica: “è il livello in cui la realtà sociale si appropria dello strumento radiofonico e lo usa direttamente per allargare e difendere “macchie liberate” e come mezzo di coordinamento delle lotte e delle iniziative di massa”: questo era il terzo livello indicato da Peppino per l’uso di spazi autogestiti, come quello della controinformazione. In quest’ultima fase della sua vita Peppino era, sembrava esser tornato alla ribellione iniziale, quella contro suo padre, mafioso, che adesso era sostituito da Tano Badalamenti, boss assoluto del territorio e non solo. Fu questo che non gli venne perdonato,  di avere rotto un codice, di non essere organico al sistema dominante, di non avere avuto rispetto per i potenti e di averli ridicolizzati pubblicamente. E la strategia del suo delitto fu quella di farlo passare per un terrorista, per un suicida, comunque per un folle. Per fortuna era riuscito a creare, dietro di sé un solido sostrato politico di idee, ma soprattutto di compagni che è riuscito a smontare i depistaggi, a battersi, con lo stimolo della madre Felicia, per la verità e ad ottenere giustizia, sia pure dopo ventidue anni.

(Salvo Vitale)

(Pubblicato, a parte alcune integrazioni, su L’Unità 17 dicembre 2009)

 

( 13 aprile 2014 )



Ci sono 1 commenti sulla notizia
(anonymous): 26/04/2017 11:44:54
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