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6 agosto 1980: Gaetano Costa

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Gaetano COSTA
6 agosto 1980 – Palermo 


Mentre passeggia solo in via Cavour a Palermo, Il Procuratore Capo della Repubblica Gaetano Costa è ucciso da due sicari e ucciso. Il suo corpo è dissanguato, il viso irriconoscibile. In quel momento era l'unico magistrato cui era stata assegnata una scorta e un'auto che egli non aveva accettato per non mettere a rischio la vita di quelli che avrebbero dovuto proteggerlo. Ancora oggi nessuno è stato condannato per la sua morte, anzi si è fatto di tutto per occultare o non dare il giusto giudizio al suo lavoro di magistrato integerrimo. Nel caso di  Peppino Impastato fu il primo a rendersi conto che non si trattava di terrorismo o suicidio, ma di un  delitto di mafia. Ecco come Salvo Vitale, nel suo libro "Cento passi ancora"  ricostruisce idealmente la sua figura immaginando un colloquio tra Rocco Chinnici, il coraggioso collega che ne continuò il lavoro, sino al momento della sua morte, nel 1983. L'episodio dell'ascensore è stato raccontato da Enzo Guidotto nel libro "Mafia" (edizioni Distretto Scolastico di Castelfranco Veneto)

 

6 agosto 1980 : Gaetano Costa

 Palermo: immagino la scena nel palazzo di giustizia. Nella stanza del   Procuratore Generale Gaetano Costa, intento a firmare una pila di fogli che gli stanno davanti, entra Rocco Chinnici:

-“ Tutti in ferie e tu al lavoro. Cosa stai facendo?”

Costa: -“Quello che i colleghi sostituti si sono rifiutati di fare.  Sono arrivate minacce e avvertimenti da tutte le parti e si sono spaventati. Guardali adesso al piano terra: “E’ stato lui a firmare, io non c’entro”. Così si sentono liberati. Ma li capisco.  Quando si sentono bruciare la sedia sotto il culo si muovono tutti, mafiosi, massoni, piduisti, neofascisti, politici e militari”

Chinnici: -“Già, non si vuole che si facciano certe indagini. Sono tutti mandati di cattura?

Costa: -“Oltre trecento. Tutta la crema di Palermo. Ma andiamo a scambiare due parole. Qua nulla sfugge”.

E’ una prassi ormai collaudata: chiamano l’ascensore, entrano, vanno su e giù per alcune volte.

Costa parla a bassa voce: -“Spatola, Gambino, Inzerillo, Bontade, Di Maggio, Vernengo sono gli attuali padroni di Palermo, con i politici che li coprono, Lima, Ruffini, Gioia, Ciancimino. Ci sono on mezzo anche Joseph Miceli Crimi, il medico di Sindona e Pippo Calò, che sta a Roma a fare il cassiere. Tutti ammanicati bene l’un l’altro. Se mi succede qualcosa voglio che sia tu a continuare. E stai attento.  Questi sembrano, anzi sono perdenti. Il pericolo viene da più lontano.”

Chinnici: -“Badalamenti?”

Costa: -“No, anche lui è fuori causa. Posato. Era il terzo uomo del triumvirato, assieme a Stefano Bontade  e a Totò Riina con la sua banda di Corleonesi. Ora pare che al suo posto ci sia Michele Greco, “u Papa”. A proposito, che mi sai dire del caso Impastato?”

Chinnici: -“Ce l’ho messa tutta, ma è come sbattere in un muro di gomma. A parte le indicazioni che mi hanno dato i suoi compagni non ho trovato uno spiraglio, una testimonianza per andare avanti.”.

 

Un mese dopo Costa è assassinato. La notizia arriva mentre sto mangiando una pizza da Giovanni. Lapidario il commento di una persona seduta a un tavolo vicino:

-“Ma iddu pirchì nun si faceva i fatti suoi?”

Mi incazzo, mi alzo e ribatto:

 -“Guardi che si faceva i fatti suoi, faceva il suo lavoro, che è quello di mandare dentro mafiosi e delinquenti!”.

Mi guarda come fossi un extraterrestre.

 

(Cento  passi ancora, edizioni Rubbettino, pag. 105)

 

 

( 7 agosto 2015 )



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